Ho sempre pensato che l’omosessualità fosse un attitudine che si sviluppa fin dalla nascita. Con gli anni ho conosciuto molti amici per i quali invece la rivelazione non solo è stata tardiva, per alcuni anche di parecchio, ma li ha fulminati inaspettatamente senza aver mai dato in precedenza alcuna avvisaglia anche perché non è affatto detto che le prime parole dette dopo "mammà e papà" siano necessariamente: "sono omosessuale".
Al contrario per me è andata così e prima di diventare un gay fatto (per favore, niente allusioni da trivio) sono stato un bambino gay e questo non perché fossi particolarmente sveglio o precoce dato che il trauma della mia vita è stato scoprire che Babbo Natale non esisteva, a 12 anni.
Ricordo ancora con vivido imbarazzo la telefonata che fece una sera mia zia a mia madre chiedendo se per caso (domanda retorica e cortese nonostante la certezza del fatto) io avessi accidentalmente portato via la Barbie di mia cugina durante la cena fatta tutti insieme la sera prima.
Benché molto piccolo sapevo già benissimo che i maschietti non rubano le bambole. Semmai distruggono macchinine, incendiano robot, costruiscono aerei col Meccano, ma non sequestrano Barbie per acconciare i loro capelli in ardite composizioni tricotiche stile Luigi XIV o per costruirle con il Lego una villa di 3 piani che mi avrebbe garantito l’assunzione immediata nello studio di Foster. Mio padre, al massimo mi aveva permesso di avere Big Gim, ma non si poteva pettinare, né tanto meno sfilare gli slip e la sua prorompente fisicità suscitava in me più un senso d’attrazione che di immedesimazione. Per questo, convinsi mia madre che la colpa del furto era da attribuire a mio fratello che all’epoca aveva appena 2 anni e a quell’età davvero le azioni non hanno intenzioni.
Il giorno che presi definitivamente consapevolezza di quello che sarei stato avvenne poco dopo il ratto della bambola. Ero ancora molto piccolo, quel molto piccolo che ti costringe ad essere afferrato al polso dai tuoi genitori per paura che tu possa sfuggirgli e finire sotto una macchina. Scortato dai miei genitori come due carabinieri con un detenuto, stavamo andando al cinema (Cleopatra, con Liz Taylor, il polpettone storico in cui lei fa un cambio di costume a ripresa vestita e truccata come una ballerina del Lido di Parigi, una chiara istigazione all’omofilia).
Un ragazzo sul lato opposto sta entrando anche lui in sala. Io lo guardo da lontano. Lui neppure ci nota. Sento una scossa di eccitazione e per la prima volta sperimento gli effetti dell’attrazione. Ricordo che molto serenamente, pur ancora non avendo idea di che cosa potesse significare essere omosessuale, (semmai conoscevo il termine "frocio", ma si trattava di un insulto gridato in macchina a quelli che ti tagliavano la strada) mi dissi "ma allora mi piacciono gli uomini!". Una consapevolezza placida e serena ancora non funestata da quel senso di colpa e peccato che l’intolleranza culturale nella quale poi sarei cresciuto mi avrebbe fatto provare.
Con questo non posso dire che tutti i gay abbiano avuto un’infanzia fatta di bambole negate e di trucchi trafugati dalle trousse delle madri. Molti hanno ancora le cicatrici delle risse fatte a scuola, altri sono stati dei campioni di calcio, altri non hanno mai saputo distinguere il pervinca dal ciclamino pur essendo poi finiti nello stesso privé di Muccassassina insieme agli altri. Ma c’è sempre qualcosa di speciale nei bambini omosessuali, una diversità che chi ha già percorso quella strada sa riconoscere al primo colpo, un’attitudine, una "sensibilità" (l’eufemistico aggettivo usato dalle madri che iniziano ad avere sentore delle inclinazioni dei loro figli) che pure nella splendida unicità di tutti i bambini li fanno essere ancora più particolari e riconoscibili.
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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