Nell’economia di un Festival decisamente poco coraggioso, dove non si osa con le parole né troppo con i look, la presenza di Big Mama è tutto sommato una boccata d’aria fresca. Sebbene la sua La rabbia non ti basta sia molto lontana dall’essere una canzone memorabile, lei è così convinta e scanzonata, così irriverente e libera, da essere adorabile.
Complici sono anche i suoi outfit, sospesi – almeno in queste prime due serate – tra il gotico e il principesco, un po’ Bella Baxter e un po’ musa preraffaellita. Una villain avvolta in rose di tulle nero la prima sera, un’irriverente monaca dell’Inquisizione – prima ammantellata, poi di colpo spogliata – la seconda.
L’artista campana, al secolo Marianna Mammone, si è affidata al genio di Lorenzo Seghezzi, giovane designer milanese che ha fatto della risemantizzazione del corsetto la sua cifra stilistica. Seghezzi nasce a Milano nel 1997 e inizia a cucire che è ancora molto giovane: prima gioca con il kit da sarta della nonna, poi riceve in dono una macchina da cucire e tutto cambia. Il gioco diventa magia, si trasforma in destino. Casa Seghezzi diventa presto un atelier improvvisato: la visione di Lorenzo è al servizio delle sorelle, per le quali crea abiti a partire da tendaggi e corredi di famiglia.
Il debutto ufficiale arriva nel 2020, dopo un diploma alla NABA, sulla passerella di Alta Roma, con la collezione Rivoluzione Queer, che sarà seguita l’anno successivo da Queer Asmarina. Il suo immaginario, che guarda a Vivien Westwood e Jean Paul Gaultier, si nutre di uno sguardo che rifiuta ogni concezione binaria e inventa un mondo – forse utopistico ma auspicabile – dove non esistono più distinzioni tra capi maschili e femminili. Il suo racconto etico-estetico rinuncia così alla categoria del genere e alza l’asticella del pensiero inclusivo, disgregando dall’interno ogni convenzione legata all’espressione del corpo.
Il precipitato di questa filosofia, il suo correlativo oggettivo, è senz’altro il corsetto. Un capo dalle origini antichissime il cui racconto è spesso mistificato e parziale: quello che sul corpo delle donne è simbolo di costrizione e censura, per gli uomini è emblema di liberazione e stravolgimento. Il dispositivo perfetto per raccontare la contraddizione – il corsetto è in già in sé forte e fragile – e la queerness, che come spesso accade si appropria delle sue stesse gabbie, che siano parole o siano oggetti, e le trasforma in strumenti di liberazione. Il racconto di Big Mama, tutto imperniato intorno alla necessità di rivendicare spazi e corpi, trova dunque una potente cassa di risonanza nell’estetica di Seghezzi, che oltre alla cantautrice in gara all’Ariston ha vestito negli ultimi mesi anche i Måneskin, Lina Galore, vincitrice di Drag Race Italia 3, e il danzatore Daniele Sibilli.
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