Nipple, mamelon, chikubi, pezón. Che lo si dica in inglese, francese, giapponese o spagnolo, il capezzolo mantiene sempre quell’aurea di irrinuncabile simpatia. Tondo, sporgente, piatto o introflesso, nonostante le sue minuscole dimensioni il capo della mammella rimane al centro di accese battaglie, rappresentando ancora uno spartiacque di genere tra censura e libertà. Un’apice di pelle che, a sua insaputa, detta ancora legge e incarna – in tutti i sensi sensibili – un tabù in televisione, sulla stampa e soprattutto sui social. Ci pensate, pochi centimetri di pelle.
Mentre Instagram pullula di petti dalle parvenze maschili, guai a chi osa esporre sul proprio feed un seno dalle fattezze femminili. È l’annosa tiritera del doppio standard sui capezzoli, accettati se mostrati da un uomo, materiale da bollino rosso e da pixel se capita ad una donna. Tra le ultime vittime della mannaia social c’è Grace Morgan. Tattoo artist da oltre 60.000 follower, Grace Morgan ha condiviso negli scorsi giorni una foto che Instagram, poco dopo, ha rimosso per violazione delle linee guida, forse in risposta alle segnalazioni di alcuni utenti. Un “post rimosso per contenuto sessuale”, ricaricato dalla stessa in una versione alternativa, con pettorale possente, addominale scolpito e baffo “da uomo alpha”. E il suo sfogo, tra Stories e post, vale più di mille dissertazioni sull’argomento:
È la quinta volta che posto questa foto con questo piccolo edit visto che Instagram continua ad eliminarla per p0rnogr4f*a e non elimina magari profili nati per il revengep0r*. Quanto vi terrorizzano le donne che si autodeterminano e scelgono cosa fare del proprio corpo senza lo sessualizziate voi. Pensate essere qualcuno a cui fanno paura i capezzoli feminili tanto da triggerarsi e segnalare a destra e a manca.
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Ad aggirare il sistema ci aveva provato qualche anno fa, e con non poca fortuna, una pagina Instagram pensata per mandare in tilt il meccanismo di riconoscimento del capezzolo femminile e di quello maschile. Genderless Nipples ha infatti raccolto oltre 150 foto di particolari di seni, con capezzoli e areole così zoomate da non distinguerne i corpi di provenienza. L’ultimo post, risalente al 2019, recita nella didascalia: “Nessuno dovrebbe essere in grado di prendere decisioni sul corpo altrui. Non un uomo. Non una donna. Non un politico. Non Instagram. Nessuno”. Eppure Instagram, i cui standard ricalcano quelli più diffusi tra la community fuori dai social, una qualche decisione l’ha presa nel tempo sul consenso alla pubblicazione dei capezzoli femminili.
Tra i contenuti proibiti sulla piattaforma, citiamo, “capezzoli femminili in vista, tranne che nel contesto di allattamento al seno, parto e momenti successivi al parto, situazioni correlate alla salute o atto di protesta”. Chi si occupa della moderazione dei contenuti, quindi, travalica la presunta sensibilità degli utenti circa il seno esclusivamente femminile solo se la donna protagonista dello scatto è madre premurosa, malata o pasionaria. Come se, in un contesto che non inserisce nessun comma per le mammelle specificatamente maschili, mostrare i capezzoli femminili a scopo artistico (o anche senza alcuno scopo specifico, eh!) non sia una forma di manifestazione dura contro le impronte maciste che marcano l’apparato umano tutto.
Viene da chiedersi il ruolo che i social network potrebbero ricoprire, data la pervasività degli spazi virtuali nella vita di ciascuno di noi, nell’effettiva eliminazione di certi stigmi. Una domanda che non può che rimanere insoluta, alla luce dei casi di censura programmata suddetti, ma anche della lettura degli ultimi Facebook Papers, nuovi documenti interni all’azienda diffusi online nelle scorse ore. Documenti che certificano la scarsa cura nel limitare l’odio, la violenza e la disinformazione da parte del social, che da una parte fomenta il diffondersi delle fake news e dall’altra cancella la natura. Insomma, da che pulpito.
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