L’odio social è un fenomeno sviluppatosi in parallelo con le piattaforme che lo ospitano. Dagli albori dei primi social network come Facebook, Twitter e Instagram, ai più nuovi, come TikTok e Threads, l’anonimità e la protezione che i nostri schermi offrono, incentiva molti a sfogare le proprie frustrazioni su sconosciuti online, consci di incorrere in poche – spesso nessuna conseguenza.
Tutti ne siamo probabilmente stati colpevoli almeno una volta: la voglia di criticare, magari scherzosamente, un outfit, una canzone – ma anche il modo di parlare o gli hobby di qualcuno che non conosciamo, ma che entra nelle nostre vite en-passant attraverso i nostri smarthpone, ci appare quasi irresistibile.
Eppure, quest’atteggiamento apparentemente innocente presenta un lato oscuro: l’hate speech, potenziale incubatore di camere dell’eco pericolosissime, in cui le minoranze diventano un target per invasati pronti a passare dalle parole ai fatti.
Fortunatamente, negli anni, piattaforme come Meta e Bytedance sono corse ai ripari, imbastendo solidi team di moderazione pronti a sopprimere in particolare i linguaggi d’odio rivolti ai gruppi più vulnerabili ed esposti a questo tipo di fenomeno, come la comunità LGBTQIA+.
O forse no?
GLAAD denuncia: nessuna difesa contro gli attacchi alla comunità LGBTQIA+ da parte di Meta
Il “Social Media Safety Index 2023” di GLAAD, pubblicato a fine dicembre dello scorso anno, ha l’obiettivo di valutare periodicamente la sicurezza, la privacy e il grado di libertà di espressione LGBTQIA+ su piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e TikTok.
Purtroppo, i risultati non sono quelli sperati neanche quest’anno: tra policy di moderazione dei contenuti inadeguate, algoritmi dannosi e la mancanza di trasparenza e responsabilità da parte delle leadership, l’impatto sproporzionato del linguaggio d’odio sugli utenti LGBTQIA+ e altre comunità vulnerabili appare ancora inarginabile.
Nonostante i regolamenti apparentemente stringenti di aziende come Meta, la stragrande maggioranza di account che diffondono stereotipi dannosi e disinformazione, e che utilizzano termini e retoriche offensive, fino a teorie del complotto su ideologia gender e “lobby gay”, operano spesso in quasi totale libertà.
Ad oggi, la piattaforma più pericolosa dal punto di vista dell’hate speech rimane X (ex Twitter), il cui punteggio in ambito di sicurezza per le persone LGBTQIA+ è calato vertiginosamente dall’acquisizione della piattaforma da parte di Elon Musk, dal quale parte il lento, ma inarrestabile logoramento al suo team di moderazione: si ricordi la silenziosa rimozione della policy che proteggeva gli utenti trans da deadnaming e misgendering.
Ma se le altre piattaforme sono invece leggermente migliorate da questo punto di vista, le condizioni appaiono comunque inadeguate.
Dai social alla realtà: come l’hate speech digitale si trasforma in crimine d’odio
I danni derivanti dal linguaggio d’odio via social hanno risonanza anche al di fuori dell’ambiente online, e l’effetto su coloro che ne sono vittime è agghiacciante.
In molti temono di rivelare il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere per paura di essere presi di mira, e il puro e semplice impatto psicologico traumatico dell’essere incessantemente esposti a insulti e comportamenti odiosi può avere conseguenze devastanti sulla psiche di un individuo, specialmente nell’età dello sviluppo. E per qualcuno, a volte, diventa insostenibile.
Finora GLAAD ha documentato oltre 160 crimini o minacce di violenza in occasione di eventi Pride, drag show e serate queer nel 2023 solo negli Stati Uniti.
Come documentato nell’Index, anche quando le piattaforme di social media dispongono di politiche per mitigare discorsi di odio e la disinformazione, in gran parte non le riescono ad applicare – o non le vogliono applicare.
Perché un altro grosso problema – altra faccia della medaglia quando si parla di moderazione dei contenuti – è paradossalmente la soppressione sproporzionata i contenuti contenenti tematiche LGBTQIA+, tramite rimozione, demonetizzazione e forme di shadowbanning.
“C’è urgente bisogno di un controllo normativo efficace nel settore tecnologico – e in particolare nelle società che gestiscono i vari social network – con l’obiettivo di proteggere le persone LGBTQ, e tutte le persone, dagli impatti pericolosi di un settore che continua a dare priorità ai profitti aziendali rispetto all’interesse pubblico – denuncia Jenni Olson, Direttore Senior per la Sicurezza sui Social Media di GLAAD – Lo status quo in cui l’odio anti-LGBTQ, le molestie e la disinformazione dannosa continuano a fluire liberamente sulle loro piattaforme aggrava una realtà già pericolosa per le persone LGBTQ, e in particolare per le persone trans e non binarie, online e offline”.
#SecureOurSocials, la campagna di Human Rights Watch per “tirare le orecchie” a Meta
È inutile girarci attorno: Meta, colosso che detiene ben tre piattaforme nella top 5 delle più utilizzate, è l’attore principale del panorama social a livello globale. Ed è proprio a Meta che si rivolge la campagna #SecureOurSocials, lanciata da Human Rights Watch per incentivarla ad intraprendere azioni più determinanti nella moderazione dei contenuti e nell’implementazione di politiche più inclusive verso la comunità LGBTQIA+.
La campagna, basata su dati reali raccolti da varie organizzazioni per i diritti umani – compresa GLAAD – , e su un rapporto della stessa HRW, correla i linguaggi d’odio social alla situazione reale, che in paesi come Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Tunisia è decisamente più preoccupante.
Non solo l’hate speech è rampante, ma in paesi come quelli sopracitati le piattaforme social possono diventare vere e proprie armi utilizzate da autorità e governi per perseguitare la comunità LGBTQIA+.
“Essendo la più grande azienda di social media al mondo, Meta dovrebbe essere un leader globale nel rendere i social media sicuri per tutti”, spiega Rasha Younes, vicedirettore ad interim per i diritti LGBT presso Human Rights Watch. “Quando le persone LGBTQIA+ utilizzano Facebook e Instagram per connettersi e fare rete, meritano la certezza che Meta stia facendo tutto ciò che è in suo potere per garantire la loro sicurezza”.
Basata sulla ricerca di Human Rights Watch e sulle raccomandazioni della società civile, la campagna #SecureOurSocials mira a coinvolgere Facebook e Instagram a intraprendere un percorso di trasparenza e responsabilità, pubblicando dati significativi sugli investimenti nella sicurezza degli utenti, anche per quanto riguarda la moderazione dei contenuti.
Per contribuire a diffondere la consapevolezza sull’argomento, Human Rights Watch ha collaborato con la pioniera della drag culture libanese Anya Kneez per creare un video esplicativo su come tutelarsi sui rischi specifici dei social media per coloro che sono più esposti.
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