Coming out o l’obbligo di definirsi?

E se ci definissimo ai nostri termini?

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coming out o forzatura
Photographer Kayt Webster-Brown for VINGT Magazine Fashion & Editor Jheanelle Feanny
2 min. di lettura

Lo scorso primo Novembre Kit Connor, star di Heartstopper, ha confermato di essere bisessuale. Una forzatura più che un coming out, dopo mesi che i fan della serie l’hanno accusato di queerbaiting, l’attore appena diciottenne è tornato al volo su Twitter per togliere ogni dubbio alle pressioni esterne: “Sono bi. Congratulazioni per aver costretto un diciottenne a rivelarsi. Penso che alcuni di voi non abbiano capito il senso dello show. Addio”.

Queerbaiting è tra le parole più inflazionate dalla bolla LGBTQIA+. Nell’arena di Twitter e Instagram, è un termine che fa capolino ogni tre giorni, generando quell’indignazione che come ampia parte dell’attivismo social, nasce e muore nel giro di quattro infografiche. Quello di Connor è l’effetto collaterale di un dibattito polarizzante che non riesce ad uscire dalle sue  pareti virtuali, e finisce per arrovellarsi dietro gli stessi cinque concetti ripetuti a pappagallo, impedendo una conversazione con il mondo reale.

Ad uscirne svilite sono le cause stesse: le industrie, il sistema circostante, e i media mainstream continueranno ad appropriarsi della cultura queer, senza creare una reale inclusione dentro e fuori lo specchietto per allodole costruito per il pubblico medio, monetizzando sulle nostre cause giusto il tempo di un Pride. D’altra parte, le persone LGBTQIA+ continueranno a vivere in funzione di una morale comune, invalidando il proprio percorso di scoperta e conoscenza personale per fretta di rispondere all’impellente richiesta di definirsi, allo sguardo di una società che vuole conferme a tutti i costi.

L’exploit di nuovi termini e parole coniate negli ultimi quattro anni, permette di dare senso e forma alle mille sfumature di un’identità di genere e sessuale che la cultura eteropatriarcale ci ha costretto a confinare in due opzioni a senso unico. Ma  renderle l’obiettivo primario del processo è un’arma a doppio taglio: scegliere di presentarsi al mondo con il termine che ci rappresenta di più non è un dovere, ma uno step personale determinato da fattori che non dovrebbero dipendere da nessuna pressione esterna.

Nel caso di Connor c’è un pressappochismo ulteriore: se un uomo va con una donna o viceversa, automaticamente parliamo di eterosessualità. Che i soggetti coinvolti siano bisessuali non viene contemplato. Se da una parte una coppia composta da un uomo e una donna ha sicuramente più privilegi e meno ostacoli in una società eteronormata rispetto tanti altri casi nello spectrum LGBTQIA+, bollarle come etero di default contribuisce solo ad invalidare e cancellare ulteriormente le persone bisessuali dall’immaginario comune.

A maggior ragione, obbligare qualcunə a presentarsi con un’etichetta o l’altra, rischiando gogna pubblica in caso contrario, è un gesto violento e disumanizzante. Se smettessimo di trattare le persone, in particolare le persone queer, come totem comportamentali, modelli impeccabili e immutabili, potremmo finalmente permetterci di scoprirci, esplorarci, e (ri) nascere alle nostre condizioni. Anche quando le parole non bastano.

Leggi anche: Queerbaiting: ci sta sfuggendo leggermente di mano?

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