Negli ultimi anni abbiamo assistito – fortunatamente – a uno sdoganamento di tantissimi tabù relativi alla questione LGBTQ+. Avere un orientamento diverso dall’eterosessualità, in tantissime situazioni, non è finalmente più qualcosa di cui vergognarsi.
Tuttavia, la transizione mainstream della questione LGBTQ+ ha anche dato adito a mostri come il pink capitalism e il tanto discusso queerbaiting, pratiche che sfruttano la tematica a proprio vantaggio senza esporsi più di tanto.
Il queerbaiting è un argomento decisamente discusso negli ultimi tempi, e sebbene tantissime osservazioni in questo senso siano più che fondate, come spesso succede qualcuno si fa sfuggire un po’ la situazione di mano.
Cosa si intende quando parliamo di queerbaiting?
Per chi non conoscesse il termine, queerbaiting significa fingere – o comunque far intendere – di appartenere alla comunità LGBTQ+ o essere attratti da una persona che ne fa parte, anche se non è vero.
La situazione ha anche raggiunto livelli piuttosto ridicoli, con diverse persone che fingono intere relazioni con persone dello stesso sesso – o con persone non binarie – per avere un po’ di sweet sweet clout.
Il termine ha visto la luce su Tumblr una decina di anni fa, quando un gruppo di fans ha mosso alcune critiche a show che sfruttavano il “dico non dico” per far trasparire la propria apertura mentale senza però esporsi troppo, guadagnandosi così il favore di tutto il pubblico.
Ammettiamolo: tutti abbiamo sperimentato almeno una volta frustrazione nel vedere il nostro simbolo sfruttato per qualche soldo in più. Specialmente la comunità bisessuale, che a causa di qualcuno viene costantemente accusata di queerbaiting.
Il risultato è che per le grandi case di produzione cinematografiche e di serie TV – nonché celebrità in ogni ambito – hanno cominciato a utilizzare il queerbaiting per attirare l’attenzione della comunità LGBTQ+ e ottenere il suo supporto – nonché i suoi soldi.
Se tutti fanno queerbaiting
Con l’avvento dei social media, e con una consapevolezza maggiore del fenomeno, in molti stanno individuando ed evidenziando quelle celebrità che praticano queerbaiting a loro vantaggio. Ma, come spesso succede, sta diventando una vera e propria caccia alle streghe.
Un esempio lampante e recente è stata la “questione Harry Styles”. In molti hanno accusato il cantante di fare queerbaiting, perché durante il Coachella si è esibito sul palco indossando abiti definiti femminili e smalto sulle unghie.
Harry stesso ha sempre dichiarato di non volersi etichettare con nessun orientamento sessuale definito, e che speculare sulla sessualità altrui è un atteggiamento deplorevole.
Anche perché, con tutte le battaglie fatte per eliminare gli stereotipi di genere, definire abiti “femminili” dei semplici vestiti rosa è un passo che ci riporta allo status di zia anziana che si preoccupa perché la nipote indossa una maglietta blu e non gioca con le barbie.
Un altro esempio di celebrità accusata di queerbaiting è la cantante Billie Eilish. Al tempo, Billie aveva subito un backlash spietato da parte della comunità LGBTQ+ dopo aver postato una foto su Instagram con la caption “Amo le ragazze”.
Ora, la frustrazione ci sta, perché la Eilish ha dichiarato più di una volta di essere eterosessuale in varie interviste. Tuttavia, si tratta di una posizione espressa diversi anni fa, quando era ancora una ragazzina – quindi le cose potrebbero essere cambiate.
Nel tempo, la cantante – nata, ricordiamo, nel 2001 – potrebbe aver esplorato la sua sessualità e magari non voler ancora fare coming out ufficiale. Ma la cosa più importante da sottolineare è che questo non dovrebbe riguardarci minimamente.
La base della lotta per la liberazione della comunità LGBTQ+ sta nel concetto che l’orientamento sessuale di una persona non debba essere qualcosa su cui indagare e su cui esprimere giudizi.
E, paradossalmente, l’atteggiamento di alcune persone nell’accusare chiunque queerbaiting, sta proprio perpetrando il metodo di oppressione che ci ha portato a dover lottare per esistere.
La morale della storia è che la visione predominante nella società moderna – che a molti viene spesso insegnata fin dall’infanzia – ci parla di una normatività su binari: di base, una persona è eterosessuale.
Quindi, sia in chiave negativa sia positiva, per essere definiti parte della comunità LGBTQ+ bisogna per forza provarlo, sennò è queerbaiting. Che è lo stesso ragionamento alla base della bifobia dilagante, secondo il quale una persona impegnata in una relazione eterosessuale sta solo cercando di attirare l’attenzione.
A meno che non si tratti di esempi lampanti, come quello di Carissa Pinkston, chi siamo noi per fare i conti in tasca sull’orientamento sessuale e l’identità di una persona?
Tuttavia, dobbiamo saper discernere: se qualcuno dichiaratamente eterosessuale finge costantemente di essere queer con intenzioni malevole, allora quello diventa un problema. Ma questo non si combatte con un attacco massivo a ogni minimo segnale di queerbaiting.
Tutto ciò che possiamo fare è continuare a educarci ed educare le persone su argomenti di questo tipo senza bias pregiudizievoli: del resto, non si elimina l’oppressione con altra oppressione!
Immagine di copertina: edit photo Daniel Lloyd Blunk-Fernández
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