È una della scene queer più intense e imprevedibili viste al cinema ultimamente: durante il rito solenne della lenta vestizione dei cadaveri per la cerimonia funebre, che nella cultura giapponese si svolge davanti ai parenti raccolti in silenzio, il nuovo ‘nokanshi’ (ossia ‘maestro di deposizione nella bara’) si rende conto, tastandola, che l’avvenente giovane ragazza senza vita è di sesso maschile. È l’incipit di una splendida gemma giapponese, “Departures” di Yojiro Takita, vincitore l’anno scorso di un meritato Oscar come miglior film straniero e finalmente in uscita da noi grazie alla casa di distribuzione indipendente Tucker Film. Un film sorprendentemente lieve e ironico, nonostante il tema affrontato, in grado di affrontare lateralmente anche la tematica trans con una sensibilità davvero rara.
Il violoncellista Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki, molto cinegetico) perde il lavoro dopo aver suonato per l’ultima volta “L’inno alla gioia” di Beethoven con l’orchestra destinata a sciogliersi. È costretto a vendere l’amato strumento musicale e a trasferirsi con la moglie Mika (Ryoko Hirosue) da Tokyo nella più economica prefettura di Yamagata. Dopo aver letto l’annuncio su un giornale, si reca in quella che crede essere un’agenzia viaggi ma che si rivela non senza sorprese un esercizio di pompe funebri. Inizialmente riluttante, viene convinto dall’anziano proprietario ad accettare il lavoro soprattutto per il lauto compenso. Scoprirà di avere un vero talento di ‘tanatoesteta’, ossia truccatore e addetto alla vestizione dei trapassati, professione invisa alla maggioranza, consorte compresa, ma che gli farà comprendere quanto sia catartico per i viventi approcciarsi alla morte con naturalezza e accettarne l’inevitabile fatalità con quieta e composta rassegnazione.
Gesti rituali emozionanti e quasi magici che sanno restituire tutto il mistero e il fascino della tradizione.
Quando Daigo si rende conto dell’identità trans del defunto, dopo un momento di smarrimento, chiede al suo laconico superiore che cosa fare (“Ha il coso!”). Con saggia imperturbabilità, costui domanda semplicemente ai genitori se preferiscono un trucco maschile o femminile. Emergerà la disperazione della madre, corrosa dal senso di colpa di non aver generato una donna biologica, mentre il padre sarà quasi consolato da quel velo di trucco che rappresenta l’ultimo, vero desiderio del figlio/a, consegnato all’eternità nell’identità femminile da sempre agognata come un suggello di felicità. Il tutto raccontato senza nemmeno sfiorare l’ombra del grottesco ma con un sincero pathos ricco d’umanità semplicemente eccezionale.
Ma in “Departures” sono molti i temi affrontati – è il caso di dire: con profondità – e quanto mai ‘vitali’: il rapporto con le figure genitoriali, l’importanza del cibo per la qualità della vita, il significato del rito nella cultura giapponese, la riconciliazione con la natura nel confronto fra città e campagna. Magnifico il personaggio del frequentatore del bagno pubblico che darà l’ultimo addio all’amata proprietaria sintetizzando un’intera vita professionale in un bellissimo monologo.
Con uno stile limpido più vicino al tono sardonico di Imamura che alla classicità di Ozu (strepitoso il video promozionale in cui Daigo è costretto a far finta di essere un cadavere e subire ‘tappi anali’), “Departures” è un gran film colmo di dignità e pudore.
Il regista Yojiro Takida è uno massimi esperti di ‘pinku eida’, i softcore erotici giapponesi, in cui spesso s’incontrano situazioni omosex, soprattutto lesbiche.
Da vedere.
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