Esce domani l’atteso film di Fabio Mollo Il padre d’Italia, noi abbiamo voluto elencare 10 motivi per i quali vale davvero la pena andarlo a vedere.
- La bravura di Luca Marinelli: il tormentato Paolo, gay spaventato all’idea di una possibile paternità, è l’ulteriore conferma della capacità dell’attore di essere a proprio agio in ruoli queer, dopo l’interpretazione della trans Roberta nel dimenticato L’ultimo terrestre di Gipi. Sarà quello sguardo di zaffiro, sarà la sensibilità nell’abitare con anima e corpo i personaggi, sarà quella speciale confidenza con la macchina da presa: in ogni caso uno dei più interessanti attori italiani sulla piazza.
- La capacità di Isabella Ragonese nel calarsi con credibilità in un personaggio difficile, non empatico, a rischio di stereotipo: la ragazza scapestrata e inaffidabile, senza bussola e persino incinta. La sua Mia, irresponsabile ma libera, non si dimentica in fretta.
- L’originalità: non è il classico film gay totalmente incentrato sull’omosessualità più o meno accettata. Si parla dell’essere orfani, di paternità, di responsabilità genitoriale, di rapporti familiari, di precarietà lavorativa. Temi complessi affrontati con ammirevole scorrevolezza di scrittura.
- Perché è un road movie atipico, che attraversa l’Italia immergendosi nelle contraddizioni del nostro Paese, da nord a sud, da Torino a Roma, per scendere a Napoli e poi ancora più giù, in quell’alveo materno di Mia che si chiama Bagnara Calabra. Un’Italia inedita, per nulla cartolinesca, di autostrade e cemento. I due protagonisti viaggiano tanto: ma si può fuggire da se stessi?
- Per la scena provocatoria del sex club gay dove l’apparizione di Mia con tanto di giubbotto ‘mariano’ ha qualcosa di miracoloso: che ci fa lì? E che cosa rappresenta per Paolo? Un’intelligente idea di sceneggiatura che fa riflettere.
- Per il talento del regista Fabio Mollo, alla sua opera seconda, dopo il folgorante esordio Il sud è niente. La sua macchina da presa accarezza i personaggi, ne coglie le sfumature ma non è mai invadente.
- Amanti di Loredana Bertè, accorrete! La vostra beniamina si fa sentire forte, attraverso il tocco vintage di quelle musicassette ormai dimenticate che hanno fatto la colonna sonora dell’infanzia di Mia. E non a caso Mia si chiama così (Mia Martini è anche una delle cantanti preferite del regista).
- Per il ruolo secondario ma intenso di Anna Ferruzzo, già bravissima in Anime Nere ma piuttosto sottoutilizzata nel cinema italiano. Lei è la mamma addolorata di Mia, incapace di comprendere e aiutare quella figlia così ‘diversa’, così selvaggia, non addomesticabile. La Ferruzzo vibra di emozioni autentiche che conquistano lo spettatore. Chapeau.
- Per quell’inquadratura magica di Mia in avanzato stato di gravidanza, completamente nuda, dietro la tenda semitrasparente. E dire che la Ragonese non era realmente incinta, quindi il trucco è pure venuto benissimo. Eterea e sospesa, la quintessenza della dolcezza materna.
- Per il finale commovente – sì, ci è scappata la lacrimuccia – che dà un senso profondo all’intero film e scuoterà profondamente chi è ancora convinto che un omosessuale non possa essere un buon padre.
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Io sono innamorato dei luca marinelli ormai