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HIV e autostigma: un problema serio per la mente e per la salute

Uno studio rivela: una persona affetta da HIV su due non rivela la propria condizione a causa dell’autostigma. Da cosa deriva?

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Vivere con l’HIV nel 2022 è molto diverso rispetto a trent’anni fa. Oggi, grazie alle terapie sempre più efficaci per tenera a bada il virus ed evitare che si trasformi nella malattia autoimmune mortale degli albori, una persona affetta da HIV può condurre una vita normale, con un’aspettativa simile ai sieronegativi.

Se infatti la persona segue una terapia costante ed effettua controlli periodici, gli antiretrovirali decrementano l’entità del virus fino a renderlo non rilevabile, e quindi non trasmissibile in nessun modo, neanche attraverso i rapporti sessuali non protetti.

Tuttavia, se c’è una cosa che rimane pressoché immutata, è lo stigma. In molti ancora oggi vedono una persona con l’HIV come un “appestato”, un pericolo e un veicolo d’infezione da cui stare alla larga.

Questo atteggiamento spesso fa sì che la persona stessa non desideri rivelare il proprio status a nessuno, se non alla propria equipe sanitaria: si stima che una persona su due sia vittima infatti di autostigma, un problema trasversale che necessita di massima attenzione.

L’autostigma potrebbe colpire una persona affetta da HIV su due

L’autostigma è quell’atteggiamento di vergogna e disgusto provato da una persona a causa della sua condizione, ed è spesso influenzato da agenti esterni quali la discriminazione, l’ignoranza sulla questione e la mancanza di una rete di supporto solido per la persona affetta.

Ed è proprio per quest’ultimo motivo che Fondazione Icona, con il sostegno delle associazioni di pazienti e il supporto di ViiV HC, ha avviato un’indagine utile a valutare l’impatto e l’entità dell’autostigma, raccogliendo dati su un campione di 580 persone, di cui l’86% uomini e il 14% donne, con età media di 48 anni.

L’indagine, i cui dati sono stati presentati in questi giorni all’ICAR (Italian Conference on AIDS and Antiviral Research) a Bergamo, rivela che il 52% delle persone preferisce non rivelare la propria condizione a nessuno, se non all’equipe medica.

Il che viene interpretato dai professionisti sanitari come un sentimento di vergogna e senso di colpa provato verso sé stessi, a prescindere dall’esperienza in relazione alla malattia. Ed è proprio per questo motivo che è così importante rilevare quante persone dichiarano il proprio status e quante invece decidono di tenerlo nascosto.

La presa in carico delle persone con HIV non può più prescindere dal considerare anche il vissuto della persona in merito alla malattia stessa per definire gli interventi – spiega la dott.ssa Antonella Cingolani, Università Cattolica S. Cuore, Fondazione Policlinico “A. Gemelli”, Roma – Gli aspetti di socialità, quindi di rivelazione o meno della HIV-positività, costituiscono un buon indicatore per allertare il clinico e l’equipe sanitaria su sostegni e proposte di interventi specifici”.

Secondo i promotori dell’indagine, quindi, un’equipe medica dovrebbe occuparsi non solo della salute fisica del paziente, ma anche di quella mentale con interventi che vadano a prevenire l’autostigma e le conseguenze a esso associato.

Treatment burden e autostigma: serve una rete di supporto e interventi mirati per le persone affette da HIV

Le indagini hanno rivelato, in particolare, che sono le persone che dimostrano una condizione più fragili e immunocompromesse a nascondere maggiormente la propria condizione. Questo, interpretando i dati, può essere associato anche all’incremento del treatment burden.

Il treatment burden – tradotto letteralmente in carico di trattamento – è il sentimento negativo percepito dalla persona affetta da HIV non solo verso la malattia, ma anche dalle conseguenze a essa strettamente correlate.

Le persone più immunocompromesse probabilmente sentono maggiormente il peso dell’infezione, che nelle loro condizioni può esitare in malattia grave. L’effetto “spada di Damocle” su queste persone non fa che incrementare il sentimento negativo derivante dalla propria condizione.

Tuttavia, l’assunzione a vita di farmaci, i frequenti appuntamenti medici, il monitoraggio continuo dello stato di salute e l’impegno in terapie fisiche impatta sulla vita di un paziente, anche se esso non ha altre limitazioni nella vita di tutti i giorni.

La rete ICONA e la collaborazione con le organizzazioni di pazienti ci consentono un osservatorio privilegiato: cercare di attenuare il più possibile il già difficile contesto di fragilità clinica è un dovere per la rete di clinici e associazioni” conclude la Prof.ssa Antonella D’Arminio Monforte, ASST Santi Paolo e Carlo, Milano e Presidente di Fondazione ICONA.

Febbre, Jonathan Bazzi e la battaglia a stigma e autostigma delle persone HIV+

A proposito di stigma e autostigma, è utile qui riportare uno dei più importanti e letti articoli nella storia di Gay.it. Dalle pagine del nostro magazine infatti lo scrittore Jonathan Bazzi, all’epoca redattore della nostra testata, rivelò al mondo la propria sieropositività nell’articolo-manifesto Jonathan Bazzi: “Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto”. Articolo che sottolineava proprio l’importanza di combattere l’autostigma al fine di condurre un’esistenza migliore sia dal punto di vista clinico, sia dal punto di vista sociale. Due anni più tardi, Bazzi pubblicò il clamoroso e ormai iconico romanzo “Febbre”, finalista al Premio Strega, nel quale racconta in forma narrativa l’esperienza della sieropositività e la battaglia interiore per sconfiggere stigma e autostigma delle persone HIV+.

 

foto di copertina: Amin Moshrefi

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