Se ne stanno abbracciati nel portabagagli di una vecchia Mercedes station wagon con targa russa. Uno assorto nel sonno, l’altro guardingo, sguardo sospeso nella possibilità di un imminente pericolo. Due ragazzi teneramente raccolti, rannicchiati e intrecciati nei corpi, adagiati sui sedili ribaltati, in un’automobile che è lo spazio di una temporanea e fragile rassicurazione, in quell’altrove generico, costretto dalla forma e privo di continuità sostanziale, che per Elmgreen & Dragset, i due artisti autori della scultura, è un’ossessione in ripetizione. Un’ossessione che raccorda le differenti installazioni della mostra “Useless bodies?”, da qualche giorno alla Fondazione Prada di Milano.
All’ingresso della mostra, e disseminati nelle aree di raccordo del museo, spuntano pali rivestiti di superfici specchianti. Trattasi di riproduzioni di cartelli stradali che tuttavia non sorreggono messaggi relativi a divieti d’accesso o limiti di velocità (eccetera). Sono semplicemente rivestiti di specchi, e rimandano l’immagine di chi guarda, il riflesso dell’ambiente circostante, in una snervante mancanza di punti di riferimento.
Michael Elmgreen (Danimarca) e Ingar Dragset (Norvegia) sono già famosi (anche) per l’indimenticabile memoriale al Tiergarten di Berlino, installazione in ricordo delle sofferenze inflitte agli omosessuali dal regime nazista: un cubo di cemento che nega i fasti grandiosi e statici dell’idea di memoriale, e custodisce segretamente nel suo ventre alcuni ben più espliciti video che testimoniano il divenire dell’affettività (in fondo all’articolo ho inserito uno dei video).
Alla Fondazione Prada il duo di artisti propone, con “Useless bodies?”, una riflessione sul corpo e sulla perdita della sua centralità. Un corpo, quello umano, in balia delle forme definitive impresse dagli artifici del progresso. Che modifica abitudini, posture, percezioni, coscienza del sé.
Ci sono corpi sospesi nel vuoto, corpi deformati dalle abitudini odierne, e che si aggirano in mezzo a plastiche e rassicuranti pose di statue neoclassiche, bambini che osservano fucili, ragazzi che guardano un qualsiasi nowhere, teenager fluttuanti nel metaverso, una piscina distrutta dall’abbandono e dalla voracità dei consumi, e poi ancora cani robot che sorvegliano i visitatori, caminetti domestici che paiono riproduzioni video e che sono invece illusioni di vaporacqueo spruzzato di luce, postazioni di lavoro tutte uguali e ripetute in agghiacciante continuità, panchine solo per omosessuali – o comunque solo per qualcuno di specifico ma non determinato -, spogliatoi di palestre disumanizzati, eppure pieni di tracce umane inorganiche. Un viaggio da incubo nelle peggiori staticità, allestite dal duo Elmgreen & Dragset per fissare il caos velocissimo della nostra epoca, così affannata dall’illusione della vita, da rappresentare la morte, immobile e presente in ogni istante.
E i due ragazzi abbracciati nella Mercedes rimandano a un contraccolpo. Una risacca, che Michael Elmgreen e Ingar Dragset ancora una volta sembrano svelare da quella penombra generata dalla superficialità degli schieramenti a priori che segnano i nostri tempi. Grazie all’idea di uno spazio narrativo preciso e altamente descrittivo, una vecchia Mercedes 280 TSE all’incirca del 1980, che in Europa vediamo circolare ormai soltanto in quella periferia dell’Unione Europea che è ormai la Russia Occidentale, proprio nei giorni della guerra d’Ucraina, Elmgreen e Dragset pongono l’attenzione sulle vittime che l’aggressore opprime in seno.
Nella facile e agghiacciante russofobia di questi giorni, questi due ragazzi gay russi che scappano dalle persecuzioni della Russia di Putin, fanno tremare qualsiasi certezza e ci presentano il conto di un’epoca in cui il nostro corpo è ormai un cumulo di cellule in balia dell’artificio e delle teorie da noi stessi creati.
Foto: Fondazione Prada – Aprile 2022, Elmgreen & Dragset “Useless bodies?”
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