Quando una persona eterosessuale – in particolar modo un maschio (mannaggia, ce la prendiamo sempre con voi, poverini) – dichiara che non potrebbe mai nella vita – ci cascasse un meteorite sopra la testa seduta stante – andare con una persona dello stesso sesso, cerco di contenere il ghigno e bloccarmi dal porre la domanda: ci mettiamo proprio la mano sul fuoco?
Mi succede, in generale, quando le persone pongono così tanta resistenza davanti un’ipotesi possibile. In particolar modo quando parliamo di sessualità, che abbiamo imparato a disporre in compartimenti stagni ben precisi, ma che nel concreto spesso sfugge al nostro controllo.
Ma se l’eterosessualità ci viene sempre proposta come universale modus operandi e l’orientamento sessuale è uno spectrum con gradualità che variano da persona a persona, come capiamo dove collocarci?
Alcune ricerche presso l’Università di Sydney, riportate in un articolo per Nature’s Scientific Reports, notano come un notevole numero di persone eterosessuali si siano ritrovate a mettere in discussione il proprio orientamento dopo aver compreso le varie sfumature della sessualità, anche solo leggendo una pagina in più sull’argomento.
“Abbiamo modificato l’orientamento sessuale di queste persone con il nostro intervento? Certo che no” spiega il Dr. James Morandini, autore dell’articolo “Ma penso che il nostro studio le abbia aiutate ad interpretare meglio la propria sessualità alla base”.
Lo studio ha preso in esame 460 individui (232 donne, 228 uomini), tutti catalogabili sotto la definizione “etero”,e li ha invitati alla lettura di due articoli: uno sulle diverse gradazioni di attrazione sessuale verso uomini e donne, e su come sia possibile ritrovarsi in diversi punti dello spectrum, senza per forza posizionarsi totalmente da una parte o dall’altra della scala. L’altro su come l’orientamento sessuale di una persona può evolversi nel tempo, suggerendo la parola più inflazionata del 2021: fluidità.
In seguito è stato chiesto ai partecipanti di classificare la propria sessualità su una scala di 9 punti che va da “esclusivamente eterosessuale”(1) a “esclusivamente omosessuale”(9), spiegando quanto sono sicuri del proprio orientamento sessuale e se sarebbero disposti ad avere rapporti con persone dello stesso sesso.
Stando ai risultati, 28% dei partecipanti si è definito “non esclusivamente eterosessuale” con un 19% decisamente più incline alla possibilità di avere rapporti con persone dello stesso sesso.
Perché è vero che facciamo un abuso della parola “fluidità” a tal punto da ridicolizzarla in contesti in cui non c’entra niente, ma se ha una certa risonanza un motivo ci sarà.
“Non è poi così sorprendente” spiega il professor Ilan Dar Nimrod dalla School of Psychology di Sydney “Nonostante occupino un’ampia parte della popolazione, le persone “non esclusivamente eterosessuali” – e quindi nemmeno rapidamente catalogabili come gay, lesbiche, o bisessuali – difficilmente trovano un ampio spazio nelle nostre conversazioni”.
Il potere sociale nelle parole che scegliamo per noi stessǝ va di pari passo con l’urgenza di trovare un’etichetta che rispecchi la nostra identità a 360 gradi. Lo facciamo perché la definizione conferisce un ruolo in società, percorrendo una strada il più chiara possibile e sottraendoci al brivido dell’imprevedibile.
Ma cosa significa scoprire la propria sessualità senza rispondere all’ansia di catalogarla?
“Stando al forte valore che la nostra società attribuisce a certe definizioni, una variazione sul tema può comportare implicazioni di vasta portata” continua Nimrod “Suggerendo che il livello di attrazione verso il proprio sesso è molto più comune di quanto siamo abituati a credere”.
Anche quando ci metteresti la mano sul fuoco.
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