Siamo in provincia di Treviso, dove un dipendente di una ditta di lavorazione del marmo ha denunciato di aver perso il posto di lavoro a causa del suo orientamento sessuale. Così, ha deciso di fare causa all’azienda.
Il caso è stato affidato all’avvocato Filippo Angonese che sottolinea come questi episodi siano indice di un problema più profondo.
“Questo nella sostanza rappresenta un problema che ha una radice culturale – spiega il legale – in questo caso il licenziamento è stato determinato per sole ragioni di orientamento sessuale”.
Mentre la questione è ora in fase di valutazione legale, resta l’attenzione sulla necessità di affrontare e risolvere la discriminazione sul posto di lavoro, specialmente in ambiti tradizionalmente meno esposti a queste tematiche, come quello della lavorazione artigianale.
Nonostante le leggi sia a livello europeo (Direttiva 2000/78/CE) che italiano (D.lgs. 216/2003) vietino espressamente ogni forma di discriminazione lavorativa basata su genere e orientamento sessuale, microaggressioni, mobbing, molestie e licenziamenti sommari continuano infatti ad essere una realtà quotidiana per migliaia di lavorator* appartenenti alla comunità LGBTQIA.
Questa discrepanza tra la legislazione e la realtà quotidiana è stata oggetto di una recente indagine condotta dall’ISTAT in collaborazione con l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), focalizzata su come la discriminazione, le minacce e le aggressioni impattino sulle vite lavorative e personali delle persone queer.
I dati parlano chiaro: 41,4% delle persone appartenenti alla comunità LGBT+ in Italia percepisce che il proprio orientamento sessuale abbia avuto un impatto negativo sul loro percorso professionale, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento e l’apprezzamento delle proprie capacità.
Percezione ancora più marcata quando si considerano gli avanzamenti di carriera e le opportunità di crescita professionale, con il 30,8% dell* intervistat* che sottolinea come la loro identità sessuale abbia rappresentato un ostacolo in questi ambiti.
Proprio per questo motivo, il 61,2% delle persone intervistate afferma di evitare di menzionare la propria vita privata sul lavoro per non rivelare il proprio orientamento sessuale. La stessa preoccupazione porta circa un terzo delle persone LGBTQIA+ ad evitare rapporti sociali con colleghi e persone legate all’ambiente lavorativo al di fuori dell’orario di ufficio.
Ma cosa accade a chi invece sceglie di fare coming out?
Circa l’80% delle persone intervistate ha sperimentato almeno una forma di micro-aggressione legata al proprio orientamento sessuale. Il 90% riporta di aver sentito almeno una volta un* collega fare battute offensive.
Il tipo di discriminazione e aggressioni riportate è vario e comprende umiliazioni, insulti, calunnie, derisioni, e scherzi pesanti, con una maggiore incidenza tra gli uomini.
Altre forme di discriminazione includono battute a sfondo sessuale e l’esclusione voluta da riunioni e occasioni di incontro, fenomeni che colpiscono maggiormente le donne.
L81,7% delle persone omosessuali e il 78,8% di quelle bisessuali hanno riportato di aver sentito espressioni come “lesbica” o “gay” usate in modo dispregiativo sul posto di lavoro.
La situazione si complica ulteriormente considerando la dimensione intersezionale della discriminazione: un terzo delle persone omosessuali e bisessuali ha riferito di aver subito discriminazioni durante la ricerca di lavoro, un fenomeno che non si limita all’orientamento sessuale ma si estende anche ad altri aspetti dell’identità individuale, come genere, razza, aspetto estetico e orientamento religioso.
Sebbene i licenziamenti sommari a sfondo omobitransfobico siano meno frequenti rispetto al passato, questa forma di pregiudizio continua quindi a manifestarsi in modi più sottili, ma sicuramente non meno dannosi.
Foto di Katie Rainbow 🏳️🌈 su Unsplash
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