La maggioranza invoca la ‘cancel culture’ perché vuole cancellare le minoranze

Riconosciamolo: invecchierete. Non contano i giorni passati a sudare in palestra o le ore sotto il chirurgo plastico. Il tempo è democratico, colpisce chiunque. Invecchierete.

Mattia Feltri Cancel Culture
Mattia Feltri Cancel Culture Gay.it Minoranze
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Riconosciamolo: invecchierete. Non contano i giorni passati a sudare in palestra o le ore sotto il chirurgo plastico. Il tempo è democratico, colpisce chiunque. Invecchierete. Ma ci sarà un punto in cui il vostro invecchiamento diventerà una spirale che va sempre più giù, verso il fondo, in luoghi sempre peggiori, come il risucchio di uno scolo che fa andare l’acqua verso la fogna: sarà quando inizierete a cianciare di “cancel culture”, “suscettibilità”, “dittatura della minoranza”, “pensiero unico”. È il punto di non ritorno. Il momento in cui, in altre parole, sarete diventati così impermeabili al mondo che cambia, da essere esattamente come i vostri nonni.

Vecchie signore favolose di 30 anni

Viviamo un puritanesimo di ritorno senza precedenti. Il problema però non sono le minoranze che hanno preso spazio e voce. Il problema è la “cristallizzazione” di chi occupa una posizione di potere: giornalisti, direttori, politici, personaggi noti. Chi si sbraccia urlando contro la “cancel culture” lo fa perché si è cristallizzato in un tempo scivolato via, l’effetto è quello delle vecchie signore che si cristallizzano sul trucco turchese e la chioma cotonata dei loro trent’anni. E non ci sarebbe nulla di innaturale nel cristallizzarsi, diciamo, senza citare Ernesto Galli Della Loggia, a 79 anni. Le vecchie signore sono favolose. Ma se hai un’età tra i 30 e i 60 diventa imbarazzante e se ricopri una posizione di potere diventa pericoloso.

Cosa si intende per Cancel Culture

Cerchiamo di capire prima di cosa, esattamente, stiamo parlando: per “Cancel Culture” si intende la pratica di ritirare il sostegno a personaggi pubblici e aziende dopo che hanno fatto o detto qualcosa considerato discutibile o offensivo. Qualcuno scrive “cancellare”, perché la sciatteria linguistica accompagna sempre le lagne mitomani. In realtà nessuno viene mai “cancellato” per davvero, tutti restano sempre liberi di insultare, offendere e spesso aggredire

Se li critichi, ti accusano di censura

Negli ultimi anni abbiamo assistito a gente che difendeva “Striscia la Notizia” e la libertà di tirarsi gli occhi con le dita per simulare persone asiatiche. Altra gente difendeva il diritto di dire “fro*io” e altri insulti. Altri difendevano il diritto del concorrente di “Tale e Quale Show” di pitturarsi la faccia di nero e scimmiottare Louis Armstrong. Sono battaglie che portano a stropicciarsi gli occhi, come se da ieri a oggi tutto fosse diventato in bianco e nero, ma sono quello che gli rimane per restare ancora a galla. Poi ci sono stati quelli che invece portano avanti guerriglie più pericolose, come chi è pronto a darsi alle fiamme pur di negare il diritto di una persona ad autodeterminarsi: non puoi mica decidere se sei una donna o un uomo, dicono. Ignari che sì, lo può fare e per lo Stato può farlo dal 1982 (legge 164 provate ad abolirla).

Mattia Feltri, Claudio Cerasa, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Marco Geravasoni e la lista potrebbe continuare. Ai lettori che hanno un’età compresa tra i 14 e i 25 anni non diranno nulla,  ma questi uomini sono direttori o editorialisti che negli ultimi anni hanno raccontato la minaccia di teorie inesistenti (il gender) oppure le hanno dato spazio. Rappresentano l’inquietudine di un Paese per nostra fortuna lontanissimo da quello reale, vecchio di trent’anni. Difendono posizioni ridicole ogni tanto pericolosissime ma, certo, preistoriche e destinate alla polvere.

La lagna è l’aria che respirano, ogni tanto si affacciano alla finestra e guardano quello che li preoccupa di più: le persone emarginate oggi possono esprimersi in un modo che prima non era possibile. Ciò significa che i comportamenti o le osservazioni omofobiche, transfobiche, razziste, sessiste e bigotte non scivolano più come una volta. È un problema. È cancel culture. Questo vale non solo per i giornalisti, ma anche per i leader politici, o per chiunque sia stato storicamente protetto (per privilegio o momento storico) dalle critiche dei lettori. Poiché non possono gestire questo cambiamento culturale, si affidano ad automatismi come “censura” per delegittimare la critica.

cancel culture altan
Un’indimenticabile tavola di Altan per L’Espresso

Il linguaggio di maggioranza

L’acredine sul politicamente corretto non l’ho mai capita. In fondo, credo sia una forma di educazione. Sono certo di aver imparato a non dire alcune cose non per autocensura, ma perché mi sono reso conto che dirle era orribile: perché continuare?”. Non lo dice Vladimir Luxuria durante una serata del Gay Village ma Francesco Tullio Altan, classe 1942, intervistato da Simonetta Sciandivasci per Il Foglio. L’intervista non è stata mai letta dal giornale che l’ha pubblicata, peccato. La battaglia al politicamente corretto in Italia continua a occupare i suoi spazi, mai lasciati scoperti, in nome di una presunta libertà d’espressione. Una battaglia che non è la novità di questo tempo, la troviamo in grandi maestri del giornalismo: Prezzolini, Longanesi, Montanelli. Ed è arrivato fino ai giorni nostri, insediandosi nella pubblicistica di destra. Un’evoluzione che in assenza della classe tipica dei grandi padri del giornalismo, spesso sfocia in cinismo, aggressività, umiliazione del nemico e turpiloquio da taverna. Da tragedia in farsa. I difensori della “libertà” fingono una disobbedienza ai precetti del “politicamente corretto”, continuano a esercitare un linguaggio mainstream, solido da molti anni. Un linguaggio di maggioranza.

 

Quello che si lamenta perché non può più dire la parola fro*io

La verità è che senza questa battaglia questi presunti intellettuali non avrebbero più nulla da dire. Usano le questioni lgbt come supporto respiratorio. Racconto un aneddoto che mi ha molto fatto pensare nell’ultimo mese.

Giancarlo Loquenzi, voce di di RadioRai 1, omosessuale dichiarato, mesi fa si è detto vittima di aggressioni da parte del web per aver scritto a settembre un tweet “scomodo”. Il tweet sarebbe stato scomodo forse nei suoi 20 anni (oggi di anni ne ha 61), recitava: “Non ho capito, uno non può essere fro*io e contrario al ddl Zan?”. Faceva riferimento alla dichiarazione di Alessandro Zan su un deputato della Lega. Il signore in camicia verde, ha raccontato Zan, era dichiaratamente gay soltanto a Mykonos, in Italia si agitava contro gender, lotta all’omotransfobia ecc. Il punto espresso male dal padre della legge contro l’omotransfobia era questo: essere omosessuale apertamente è sempre, in qualche modo, un privilegio per chi può permetterselo, per denaro o status o perché vive alla corte di qualche potente. Il riconoscimento di diritti va sempre a favore delle classi svantaggiate, le altre il diritto se lo comprano.

Loquenzi è stato in grado di interpretare benissimo proprio quest’ultima considerazione. Ha sganciato un tweet che ricordava i bambini che fanno le ruote nei prati per attirare l’attenzione degli adulti. E si è attirato qualche insulto e diverse critiche da gente che una generazione che Loquenzi non sa neanche che lavoro faccia,  tra questi uno chiedeva: “Ma fosse stato nero avresti scritto “n…o f…o”?”. Dopodiché è scattato quel sentimento tipico del berlusconismo o grillismo o renzismo, ognuno si posizioni dove vuole: cioè quella sincera convinzione d’essere discriminati, perseguitati, vittime di terribili ingiustizie solo per aver scritto “la propria opinione”. Un qualcosa che fa più pensare al fatto di non avere amici al bar che ti dicano “guarda, hai scritto una stronzata e l’hai scritta pure male”, ma tant’è.

Il paese del “non si può dire nulla”

Loquenzi invece di ignorare o spiegarsi, ha pensato bene di scrivere una pagina intera sul “tweet-storm” ricevuto e di farla pubblicare da Il Foglio. La lagna è in sintesi: non si può dire fro*io, ai miei anni sì, c’era la libertà di dirlo. Ci sono stati anche altri articoli sul come si affronta la questione omotransfobia. Tralasciamo la reazione dei colleghi (tutti eterosessuali): chi applaudiva per avere usato la parola fro*io, chi invece aggiungeva battute su battute. E tralasciamo anche il fatto che per due mesi Loquenzi sia diventato esperto del fenomeno, questo è il paese dove tutti pensano di avere la soluzione di tutto. Ma il “non si può dire nulla” urlato dalle colonne di un quotidiano nazionale fa davvero sorridere. In realtà oggi ognuno può dire ciò che gli pare e chi può, lo fa anche dalle pagine di un giornale di opinione. Basta dare un’occhiata ai social: la frequenza con cui i commentatori dell’internet violano il codice penale pensando di praticare la libertà d’espressione è infinita, da tutte le parti.

La scelta di farsi largo nell’opinione pubblica alimentando la “polemica”, provocando, stuzzicando la pancia di una parte del Paese non è un fenomeno negativo. Ma chi vuole giocare questa partita deve accettare tutte le regole, anche quelle della critica. Non si può parlare di “censura” o di “cancellazione”. Giancarlo Loquenzi non è stato cancellato (è un professionista e una persona piena di qualità, nessuno lo licenzierà mai per aver toppato un tweet). Come lui molti altri. Anche persone che hanno scritto le pagine più vergognose e false negli ultimi anni sulla comunità lgbt, sono rimaste lì, ben saldi a un posto che nessuno potrà mai togliergli.

Mattia Feltri fuori dal tempo

No, non sono persone che resistono a un pensiero unico, sono persone che sparano dall’alto delle loro posizioni e sperano che nessuno gli risponda. Giorni fa Mattia Feltri ha scritto un editoriale contro il ddl Zan. Pioggia di critiche. È stato cancellato? No. Ha ricevuto la solidarietà di cordata tipica di questi casi, come se lo avessero aggredito sotto casa, ed è rimasto direttore di un quotidiano, proprietario di rubrica fissa su un altro quotidiano, ospite gradito in radio e in tv e così via. Ricco, bianco, eterosessuale e figlio di un altro giornalista altrettanto ricco, bianco, eterosessuale. In America direbbero: privilegiato, ma suona malissimo in italiano. Diciamo che è semplicemente una persona fuori-tempo. Non ha capito che la rete è composta soprattutto da una generazione nuova che non è più disponibile di accettare la predica dell’anziano signore al bar.

Infine: se qualcuno un giorno aprisse gli occhi dentro una redazione o un salotto tv, si renderebbe conto che le posizioni potere sono occupate soprattutto da persone bianche, eterosessuali, maschi e molto anziani. La vera “cancel culture” è questa. Quella che non si apre al confronto, non da spazio e voce a chi non ce l’ha ma pensa poter parlare senza contraddittorio “di” o peggio “per conto di”. Sicché il web e i social sono l’unico posto dove una comunità sempre ai margini può esprimersi e ragionevolmente contestare una narrazione che non rispecchia la realtà ma l’avvelena.

Ah, se qualcuno un giorno provasse a mettere piede fuori dalle redazioni si renderebbe conto che lo squadrismo lo subiscono soprattutto le persone lgbt che non si nascondono: coloro che perdono opportunità professionali a causa di luoghi di lavoro tossici, che trascorrono anni a gestire traumi causati dalle azioni altrui, che si sentono esposti a una cultura che nel rivendicare libertà li aggredisce.

Parlare di “cancel culture” serve solo a mettere a tacere le minoranze, invece che fare i conti con le ragioni per cui queste minoranze potrebbero trovare certe azioni o battute disumanizzanti.

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