Ci siamo quasi. Domenica notte si terrà la 93esima edizione degli Oscar, la prima in piena pandemia, con due titoli italiani, Pinocchio, La Vita davanti a sè, in corsa per l’ambita statuetta. Tra i film a tematica LGBT in corsa spiccano Ma Rainey’s Black Bottom e The United States vs. Billie Holiday, con Viola Davis e Andra Day negli abiti di due cantanti bisessuali, ma entrambi i titoli non rientrano tra i magnifici 8 in corsa per l’Oscar più ambito. Quello a miglior film.
D’altronde in 93 anni di Oscar, incredibile ma vero, solo 18 sono riusciti nell’impresa, con quattro trionfi. Il primo fu Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, nel 1970, con Jon Voight negli abiti di un gigolò che non aveva problemi a prostituirsi con ragazzi. Per l’epoca la tematica dell’omosessualità così esplicitamente trattata fu sorprendente. Oltre alla statuetta come miglior film, Un uomo da marciapiede vinse anche quella per il miglior regista, John Schlesinger, gay dichiarato. Nel 1976 è Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet a strappare la nomination come miglior film (vinse quello per la sceneggiatura), con al centro della trama un personaggio transgender. Nel 1992 Il Silenzio degli Innocenti fa la storia del cinema, vincendo tutti e 5 gli Oscar principali. Anche in questo caso abbiamo un personaggio (apparentemente?) transgender nella trama, Buffalo Bill, serial killer che scuoiava giovani donne in quanto gli era stata negata l’operazione per il cambio di sesso. Nel 1993 è La moglie del soldato di Neil Jordan a conquistare la nomination (con Jaye Davidson nei panni della misteriosa Dil nominato agli Oscar), mentre nel 1998 Qualcosa è cambiato premia i suoi due protagonisti (Jack Nicholson ed Helen Hunt) e vede in nomination anche Greg Kinnear, nei panni di un omosessuale vittima di omofobia. Nel 2003 tocca a The Hours di Stephen Daldry, ma 3 anni dopo Brokeback Mountain riscrive la storia della cinematografia LGBT hollywoodiana, vincendo 3 Oscar, con Truman Capote – A sangue freddo nominato e in trionfo recitativo grazie a Philip Seymour Hoffman. Nel 2009 scocca l’ora di Milk di Gus Van Sant, premiato per la sceneggiatura e il miglior attore (Sean Penn), mentre nel 2011 Black Swan, con traccia bisessuale al suo interno, si limita alla candidatura e alla vittoria di Natalie Portman.
Nel 2011 I Ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko entra nel lotto dei migliori film, con Annette Bening e Julianne Moore coppia di mamme lesbiche, mentre nel 2014 Dallas Buyers Club vede trionfare Matthew McConaughey e Jared Leto, con Philomena di Stephen Frears nominato a 4 statuette. L’anno dopo tra i candidati principali spicca The Imitation Game di Morten Tyldum, con Benedict Cumberbatch negli abiti di Alan Turing, ma è nel 2017 che Moonlight sbanca l’Academy, battendo La La Land in volata e diventando di fatto il primo film a tematica gay a vincere l’Oscar più importante. Nel 2018 tocca al nostro Luca Guadagnino strappare l’ambita candidatura con Call Me by Your Name, vincitore per lo script non originale, con Bohemian Rhapsody nominato nel 2019 (e tornato a casa con ben 4 Oscar), seguito dalla Favorita (Oscar ad un’Olivia Colman regina bisessuale) e Green Book, in trionfo come miglior film, lo script e il miglior attore non protagonista (Mahershala Ali), nei panni di un pianista afroamericano e gay dichiarato.
In 93 edizioni Academy, 571 film sono stati nominati nella categoria più ambita, 18 dei quali a tematica LGBT. Stiamo parlando del 3,15% del totale. Una miseria. Ebbene sì, c’è ancora tanto da fare ad Hollywood, sul piano della reale rappresentazione e inclusione.
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