Ci sono artisti che non hanno la celebrità che meritano. È il caso della brava regista svizzero-canadese Léa Pool di cui sono stati distribuiti solo il settimo film e il successivo, ‘L’altra metà dell’amore’ e ‘The Blue Butterfly’. Grazie ai Festival a Tematica Omosessuale i suoi lavori hanno avuto visibilità in Italia (il suo splendido ‘Emporte-moi’ ha avuto una menzione speciale al Migay) e quest’anno ‘Da Sodoma a Hollywood’ le ha dedicato una ricca retrospettiva. Autrice di opere di gran bellezza formale, regista personale, non classificabile, specializzata in ritratti a tutto tondo di donne problematiche, spesso in conflitto con la famiglia, sradicate da una tranquillità emotiva di cui sono alla costante ricerca, ha concesso a Gay.it un’intervista esclusiva.
Come ha iniziato l’avventura cinematografica?
Sono nata in Svizzera, ho studiato e poi ho insegnato sempre in Svizzera. Avevo anche amici cineasti in Svizzera che hanno letto le mie prime sceneggiature, poi sono andata in vacanza in Québec e ho deciso di studiare cinema in Canada. Durante l’università ho realizzato piccole produzioni, cortometraggi che sono piaciuti molto. Poi ho iniziato a presentarli a vari festival, e finalmente sono passata al lungometraggio con ‘La femme de l’hotel’. All’inizio sapevo che avrei voluto lavorare nel cinema ma non esattamente la regista. Attualmente vivo a Montréal.
I suoi film restano impressi anche per la notevole bellezza formale. La vostra cura dell’inquadratura è notevole…
Sono sempre stata attratta dal materiale visivo, dalla fotografia alla pittura: ho iniziato a fare fotografie e poi a comporle facendone un montaggio. Ora col computer si possono fare composizioni elaborate. Lavoro tanto con la luce, in particolare utilizzo molto le Polaroid, mi affascinano, hanno una grana fantastica e poi sono qualcosa di permanente, che non si può modificare.
A quale progetto si sta dedicando attualmente?
Sto lavorando all’adattamento di ‘Pilgrim’, un bel romanzo di uno scrittore omosessuale di Toronto, Timothy Findley, che è stato attore e ha scritto per il teatro. È una sorta di ‘Orlando’, un personaggio che non può morire e attraversa la storia nei secoli. Il protagonista è legato allo psicoanalista Jung che rappresenta una sorta di coscienza collettiva. È una specie di presenza metafisica. Sarà una produzione più consistente dei miei film precendenti e a cui probabilmente parteciperà anche l’Italia come partner finanziario. Il protagonista, anche se non è ancora ufficiale, dovrebbe essere Geoffrey Rush (premio Oscar per ‘Shine’, n.d.r.), un attore che adoro. Ci sarà anche Heino Ferch, attore di ‘La caduta’ in cui interpreta un collaboratore di Hitler.
Dove girerete?
In Svizzera, a Montréal e in Italia in Toscana, vicino a San Gimignano.
Lei ha vissuto in paesi molto diversi tra di loro. Quanto l’identità nazionale ha influito sul suo cinema?
Io mi sento un vero mélange poiché mia madre ha sangue svizzero, tedesco e italiano e io ho vissuto in posti davvero molto differenti tra loro. Questo essere continuamente ‘migrante’ ha contribuito a far sì che avessi punti di vista diversi sulle cose. Adoro questa mescolanza di culture e infatti preferisco girare in posti molto vari tra di loro.
Nei suoi film c’è sempre un’analisi profonda dei rapporti tra le donne e i loro famigliari…
Sì, spesso parlo di donne, dell’assenza della madre, delle relazioni madre-figlia. Sono argomenti interessanti spesso difficili da mostrare al cinema e questo mi affascina.
L’omosessualità nei vostri film è spesso presente e viene affrontata come una dimensione emotiva spesso conflittuale…
Il tema dell’omosessualità ha preso corpo nel corso del mio lavoro.
Adoro filmare il desiderio delle donne. Ma il tema dell’omosessualità è anche molto legato a quello dell’identità, che mi interessa molto. Quando ho portato a Venezia ‘A corps perdu’ tutta la stampa era fibrillata da questo tema, in quel caso era l’omosessualità maschile, e io mio sono sentita una specie di ‘ambasciatrice’ di questo soggetto. Ho sempre cercato di filmare qualcosa di molto vicino a quello che sento.
Come mai, secondo lei, i film lesbici hanno più difficoltà a essere distribuiti?
Il lesbismo è ancora un tabù, e poi il coming out femminile è secondo me più complesso di quello maschile e più difficile da accettare.
Un altro tema costante dei suoi film è la solitudine dei personaggi, spesso isolati dall’incapacità di comunicare i propri sentimenti…
Sì, spesso noi crediamo di comunicare ma non lo facciamo. Il cinema è un ottimo modo per mostrare incontri che spesso sono decisivi ma non si verificano attraverso le parole.
Come lavora con gli attori?
Utilizzo una sceneggiatura molto precisa, e anche i dialoghi di solito non sono modificati sul set, gli attori non possono improvvisare molto.
In Italia il suo film più noto è ‘L’altra metà dell’amore’ (‘Lost and Delirious’, n.d.R.). Come ha scelto Piper Perabo?
E stata la produzione a trovarla. Era il mio primo film in inglese e la mia prima produzione con un budget abbastanza elevato. Il film è tratto da un romanzo di un regista di Toronto e avevo già una sceneggiatura scritta da un drammaturgo sempre di Toronto.
Ci sono autori di riferimento per lei?
Adoro Fassbinder e, tra i contemporanei, Almodóvar, in particolare il suo immaginario. Sono affascinata dalla sua capacità di girare con una libertà formale estrema. Quando ero giovane ero affascinata da Antonioni e indubbiamente ho amato anche Fellini e Pasolini.
Nei suoi film c’è un forte senso di ‘moralità laica’, spesso la coscienza dei protagonisti sostituisce un’entità superiore di cui sembra di percepire l’assenza. Qual è il suo personale rapporto con la religione?
La religione mi fa inorridire. E’ pericoloso che le credenze personali debbano invadere altri campi. Il fanatismo religioso è il principale responsabile delle guerre. Chi subisce i maggiori danni, poi, sono le donne e gli omosessuali.
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