AIDS, LE COLPE DEI GOVERNI

Tre grandi questioni: la lotta alla malattia, le responsabilità politiche e pubbliche, il ruolo della comunità gay. Parla Titina Ciccone dell'associazione 'Spazio Bianco' di Perugia.

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PERUGIA – Con i dati ufficiali appena diffusi si riapre, come ogni anno, il dibattito sul tema dell’AIDS che inevitabilmente porta con sé delusioni, speranze e qualche polemica. L’inversione di tendenza nella diminuzione dei contagi fatta registrare nel nostro Paese (vedi: "AIDS, torna l’allarme") se da un lato preoccupa per i nuovi comportamenti a rischio, dall’altro obbliga a porsi molti interrogativi circa l’efficacia (e la correttezza) dei contenuti informativi riguardanti l’epidemia. Accanto a questo, tuttavia, una realtà in continua crescita – e da sottolineare con la necessaria attenzione – è la rete di solidarietà fatta di volontari che in ogni parte d’Italia, e con diverse competenze, aiuta le persone infette dal virus HIV a superare il disagio dell’emarginazione sociale e l’orribile bollatura della malattia.

Tra le più importanti associazioni ce n’è una che dal 1992 opera a Perugia. Si chiama "Spazio Bianco" ed ogni anno organizza due appuntamenti significativi: uno in primavera, chiamato "International Candlelight AIDS Memorial and mobilization" – una distesa di 5 mila candele accese nella piazza IV Novembre, a forma di fiocco rosso, per ricordare i morti per contagio da virus HIV; l’altro, della "Giornata mondiale di lotta all’AIDS", che si celebra il 1° dicembre. Impegnata attivamente nella sensibilizzazione sul territorio e, soprattutto, nell’assistenza specialistica attraverso la rete dei suoi medici volontari, l’associazione riceve ogni giorno un numero crescente di chiamate da tutto il territorio nazionale di persone che si rivolgono al numero verde 800-01.52.49 per richiedere assistenza o ricevere informazioni sul contagio.

Dall’intervista che abbiamo realizzato con la presidente Titina Ciccone nel giorno della diffusione dei dati sull’HIV, emergono tre grandi questioni: la lotta all’AIDS che deve rimanere una delle massime priorità nazionali; le responsabilità delle amministrazioni locali e centrali; il ruolo della comunità gay nella rottura degli stereotipi culturali legati alla malattia.

Titina, grazie di aver accettato questa intervista. Un tuo commento ai dati nazionali sul virus HIV.

Innanzi tutto il mio commento è di parziale frustrazione davanti ad un impegno tanto costante di associazioni come la nostra, cui fanno riscontro risultati relativamente modesti dal punto di vista sanitario, specialmente nella prevenzione dal contagio di nuovi soggetti. Circa i dati in se stessi, diciamo che essi confermano una tendenza già nota agli operatori e che cioè il virus si sta diffondendo tra le persone eterosessuali, sposate, di età media, con comportamenti a rischio e soprattutto tra i giovanissimi. Questo è il vero allarme. E il messaggio che deve passare, di conseguenza, è: non abbassare la guardia; non credere assolutamente che la lotta all’AIDS si possa considerare conclusa o in via di conclusione. Né dal punto di vista medico, né, tanto meno, dal punto di vista della prevenzione quotidiana.

Quali responsabilità, e da parte di chi secondo te, in questa caduta di attenzione?

La maggiore responsabilità riguarda chi gestisce la sanità pubblica. Nei primi anni Novanta, a causa di un’informazione vergognosa, lo Stato aveva fatto passare l’AIDS come la malattia di due precise categorie: i tossici e i finocchi. Questo messaggio rischiava di produrre una frattura sociale insanabile. Ora, altrettanto colpevolmente, lo Stato fa passare la malattia come qualcosa di meno grave di quello che è. Lo dimostra il taglio di alcune voci di spesa per la sanità pubblica e – tanto per farti un altro esempio – gli spot sul virus HIV che da un po’ di tempo sono scomparsi da ogni rete televisiva. Forse costano troppo. Riappaiono solo il primo dicembre e scompaiono di nuovo il giorno seguente.

Dieci anni fa chi si ammalava di AIDS era considerato un maledetto da Dio. Perché?

Perché veniva colpito da un giudizio di condanna morale inappellabile. Condanna che riguardava tanto lo stile di vita, quanto le proprie scelte sessuali. Purtroppo, anche su questo problema, l’Italia ha misurato tutta la sua arretratezza culturale. Non ha mai affrontato il problema AIDS con approccio laico, pragmatico, moralmente distaccato. Ho visto morire persone nel più totale isolamento, abbandonate dagli stessi parenti, perché la loro malattia costituiva una vergogna. Quindi dico che se oggi il virus è una malattia gestibile per tutti, il merito va soprattutto alla comunità omosessuale. Sono stati i gay a rompere il muro del pregiudizio, a vincere la chiusura delle case farmaceutiche, a battersi per ricevere dallo Stato assistenza e cure adeguate. Gli italiani dovrebbero pubblicamente ringraziarli per questo. Grazie a loro, infatti, oggi l’AIDS non è più una punizione del cielo, ma una malattia contro cui si sta tentando, laicamente e pragmaticamente, di intraprendere una cura adeguata.

Un’ultima battuta sull’impegno delle amministrazioni. Come e dove si può migliorare?

La mappa delle associazioni come "Spazio Bianco" e delle strutture sanitarie di accoglienza per i malati di AIDS rispecchia il dato nazionale dello squilibrio nord-sud. Abbastanza bene al centro nord, male e malissimo al sud, dove strutture di questo tipo sono assenti. Perugia dimostra che, dove si vuole, le amministrazioni locali possono investire con profitto in questa direzione, finanziando associazioni di volontari e lavorando, ad esempio, con la comunità gay per l’opera di sensibilizzazione. Dal punto di vista nazionale, è necessario che il Ministero della sanità investa più soldi. Ridurre gli investimenti nella ricerca e nella prevenzione potrebbe infatti avere costi sociali molto superiori ai piccoli risparmi del momento.

di Dario Remigi

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