L’ABC DEL GAY PRIDE

Un'analisi tutta personale su come si evolve l'orgoglio omosessuale e la grande manifestazione che lo celebra. In ordine rigorosamente alfabetico, da Animazione a Zuzzurelloni.

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16 min. di lettura

Quest’anno ho partecipato ai Gay Pride di Padova, Milano e Roma, per cercare di capire come si evolvano. Poiché proporre l’ennesima riflessione sarebbe solo noioso, mi limito a spigolare alcuni aspetti in ordine alfabetico, come gioco per riflettere, magari sorridendo un poco.

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ANIMAZIONE.
A Roma Vladimir Luxuria dall’alto del carro del Mieli faceva vibrare a comando le folle con tutta l’esperienza di consumata animatrice Valtour e trascinatrice di folle: Lenin stesso si sarebbe morso le dita per l’invidia.
Se il Pride si "spettacolizza" sempre più, l’esperienza nell’animazione di eventi spettacolari è una delle capacità che andranno sempre più ricercate e apprezzate dagli organizzatori.
Un accordo più armonioso fra locali e gruppi gay potrebbe in questo senso produrre ottimi risultati, a beneficio di tutti.

BARI.
A Roma i gay di Bari hanno proposto di tenere al Sud il Pride nazionale del prossimo anno.
A me personalmente l’idea piace (a Milano ormai piove sul bagnato, mentre a Bari il sindaco, di An, ha già dato fuori di testa alla sola idea: applausi), purché sia chiaro che la popolazione italiana non è distribuita uniformemente fra Nord e Sud: il Centro-Nord è molto più popolato del Centro-Sud. Per questo motivo un Pride al Nord può riuscire (dal punto di vista puramente numerico) senza i gay del Sud, mentre un Pride al Sud non può riuscire senza i gay del Centro e del Nord. E il problema è che un gay milanese o bolognese o torinese può andare fino a Roma a tornare in nottata, e viceversa, ma non a Bari: deve fermarsi a dormire. E per molti, studenti e non, il costo d’una notte in albergo aggiunto a quello del viaggio è proibitivo.
Gli organizzatori di Bari devono perciò tener conto del fatto che alla riuscita della loro proposta contribuiranno anche minuzie puramente tecniche come la possibilità di trovare un posto dove dormire (o "non dormire"…) gratis o a prezzo simbolico. In caso contrario il rischio è che molti dicano: "Avrei anche voluto, ma la spesa…".

CARRI.
In aumento ovunque.
A Milano quest’anno ce n’erano già cinque solo dei locali gay, nonostante l’assenza di espliciti sforzi organizzativi in proposito. A Padova hanno brillato quelli colorati e musicali dei centri sociali, seguitissimi. A Roma Di’ Gay project ha messo in piazza addirittura un autoarticolato, anche se la star era indubbiamente quello della Cgil.
Si può esecrare o no la "carnevalizzazione" dei Pride (io non la esecro, e a Milano qualcuno ha portato i coriandoli, quest’anno), ma se questo è il trend, tanto vale perdere con stile: "se non puoi batterli, unisciti a loro".
La presenza dei carri va quindi a mio parere prevista, organizzata e in parte controllata: una ragazza si lamentava che per colpa della musica pum pum pum il suo gruppo non riusciva a gridare slogan. E a Padova, per dispetto, due carri dei centri sociali hanno tenuto accesa la musica ad alto volume ai margini della piazza durante il comizio finale. Questo non deve succedere: i dinosauri sì, ma al guinzaglio, se no ci schiacciano.
Ciò detto, non trovo nulla di male in un concorso per il carro più originale, né nel fatto di sollecitare i locali a partecipare ciascuno con un carro: la festa riesce più bella.

DISCORSO FINALE.
Dopo il comizio sovietico dell’anno scorso al Pride nazionale a Milano, parecchia gente è rimasta scottata. Quest’anno perciò i tre Pride maggiori hanno cercato di rimediare al danno in maniere diverse.
· A Padova hanno parlato solo persone comuni e non i politici: idea buona, ma che a tratti è scaduta nell’elenco di sfighe ("mi hanno licenziato, mi hanno picchiato, mi hanno discriminato, mi hanno insultato"…) che forse non eravamo nello stato d’animo migliore per ascoltare. La piazza è comunque rimasta piena fino alla fine.
· A Milano ci sono stati interventi brevissimi e mirabilmente sobri dei soli gruppi organizzatori; purtroppo però ancor prima dell’inizio si era già verificata la fuga di massa dei partecipanti appena arrivati in piazza, che è restata semideserta (la gente, la freghi una volta sola). Sarà per il prossimo anno…
· A Roma, infine, il Mieli ha alternato personaggi della musica e della politica: se volevi ascoltare Paola e Chiara dovevi restare a sorbirti Titti De Simone che inveiva contro Berlusconi (Titti, di’ qualcosa di gaylesbico, anche solo di bisex, ma di’ qualcosa di omosex!).
Preziosa s’è rivelata l’esperienza in "eventi/spettacoli" accumulata dal Mieli: lo spettacolo è stato di prima qualità. Ma alla fine la piazza era semideserta comunque: l’errore fatale qui era stato aspettare tre quarti d’ora prima d’iniziare: molti nell’attesa se n’erano andati.
Il modo migliore per gestire i discorsi finali dal palco non è stato insomma ancora trovato, occorrerà procedere per tentativi ed errori finché ci azzeccheremo…

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ETEROSESSUALI.
C’erano, ed hanno contato.
I Gay Pride sono diventati senza che ne accorgessimo anche un po’ la festa della liberazione sessuale, l’unica occasione in cui un cittadino italiano eterosessuale possa dire che la liberazione sessuale è importante. Per la destra infatti la liberazione sessuale è un anatema, per la sinistra pure, pardon, mi correggo, è una cosa di poca importanza (vuoi mettere le sofferenze dei popoli del Ruanda? O il finanziamento alle scuole cattoliche?).
Mi pare necessario riflettere su questa presenza. Da un lato l’apporto numerico degli eterosessuali è rilevante, dall’altro non ha ancora trovato un ruolo nelle nostre manifestazioni.
Da un lato c’è il rischio che gli etero dimentichino chi sono i padroni di casa e arrivino per imporci le loro scelte, come quest’anno nel caso del Leoncavallo o di Casarini. Dall’altra c’è il rischio che noi sprechiamo, per ignavia, questa disponibilità.
Eppure il World Pride di Roma ci ha mostrato che i gay italiani stravincono quando si propongono come avanguardia nel campo della lotta della libertà sessuale per tutti, dell’anticlericalismo, dell’eguaglianza… Un tema come le Unioni civili ci vede, di fatto, come la sola realtà organizzata in Italia a portare avanti questa battaglia… che riguarda anche milioni di eterosessuali.
Purtroppo, invece di diventare l’avanguardia della lotta per le libertà sessuali, cosa che ci permetterebbe di dialogare con settori vastissimi della popolazione eterosessuale, siamo paralizzati dalla presenza di alcuni gruppi gay che pretendono l’esatto opposto: la confluenza tout-court del movimento gaylesbico in altri movimenti sociali (noglobal & c.) nei quali noi non abbiamo nulla di originale da dire e dare. Qualcuno sa infatti dirmi quale sia la piattaforma dei noglobal sull’omosessualità? No, vero? (Essendo un movimento a forte presenza cattolica, non c’è da stupirsene…).
La lotta gay è trasversale anche alla lotta dei noglobal (nella quale peraltro io mi riconosco). Ecco perché sarebbe dissennato confluire in questo, come in qualunque altro movimento o partito eterosessuale.
La specificità della nostra lotta appare preziosa a moltissimi eterosessuali, che partecipano ai nostri Pride proprio perché sono l’unica occasione di parlare di questo tema.
Questa preziosità va coltivata e accresciuta, nel futuro.
Altro che confluenze…

FESTA o COMIZIO?
In tutto il mondo, ogni Gay Pride "riuscito" è sempre il risultato di un attento equilibrio fra aspetti di festa e aspetti politici.
· Se l’aspetto della festa prevale troppo, diventa inutile organizzare un Gay Pride: le feste le organizzano già i locali, non c’è bisogno di noi militanti a lavorare gratis per organizzarla. Che se la facciano da soli i locali, e soprattutto che paghino la gente che gliela organizza.
· Se l’aspetto del comizio prevale troppo, si può dire addio a una delle maggiori conquiste del dopo World Pride: la partecipazione di massa di lesbiche e gay non particolarmente politicizzati, che sono orgogliosi di essere gay (e in questo risultato 30 anni di lotta del movimento di liberazione gay avranno pur contato qualcosa, no?) ma che non sono interessati a vivere l’omosessualità in una dimensione "militante". Cosa non stupefacente, dato che la "militanza" è sempre stata – su qualsiasi tema – la scelta d’una minoranza.
Questo equilibrio in Italia non è stato ancora raggiunto, anche se a Padova apparivano segnali molto incoraggianti di collaborazione "sana" fra mondo politico e mondo commerciale gay (a fronte di una festa finale organizzata, decisamente, male).
Quindici anni fa, l’ostilità dei proprietari di locali gay nei confronti del movimento era assoluta, e chi provava a distribuire volantini di prevenzione dell’Aids davanti ad un locale gay veniva spesso cacciato via se non insultato.
Quindici anni dopo, il mondo commerciale, un raid poliziesco dopo l’altro, ha scoperto e imparato di non poter vivere senza le organizzazioni politiche (delle quali – novità! – alcuni di loro hanno anche fatto parte). Le quali organizzazioni, da parte loro, hanno scoperto che senza l’apporto economico dei locali il movimento gay è una macchina senza benzina.
Giunti a questo punto… siamo al punto di partenza. Perché il carattere "misto" (festa/manifestazione) del Gay Pride va raggiunto, va costruito, dosandolo tentativo dopo tentativo: non casca dal cielo già fatto come lo scudo di Atena.
Oggi come oggi siamo in mezzo al guado, mi pare: il Gay Pride non riesce ancora ad essere una festa ma non riesce più ad essere una manifestazione. Occorre uno sforzo di progettazione più deciso, occorre evitare di lasciar fare al caso, con il rischio che ne venga un risultato che mischia il peggio di entrambe le impostazioni: un evento superficiale come una festa e noioso come una manifestazione!.
L’obiettivo è invece ottenere il meglio da entrambe: un evento stimolante come una manifestazione e divertente come una festa.
Più facile a dirsi che a farsi… ma non essendoci alternative, ci resta solo da rimboccarci le maniche per provarci…

GIORNALI E MASSMEDIA.
Il trionfo del World Pride fu in gran parte il risultato dell’enorme copertura che i mass-media diedero all’evento, a seguito degli anatemi papalini.
I nostri nemici, che controllano ormai tutti i mass-media italiani, se ne sono accorti ed hanno giurato di non ripetere mai più l’errore. Da quest’anno, quindi, il Gay Pride finisce ovunque in pagina locale, o nei TG locali, perdendo la caratteristica di evento nazionale e internazionale che invece ha in tutto il resto del mondo.
Se a ciò si aggiunge che in molti giornali resta al lavoro una "vecchia guardia" di redattori che scelgono ancora le foto e fanno ancora i titoli come cinquant’anni fa, la misura è colma.
Una delle novità della politica gay dei prossimi anni, a mio parere, sarà senza dubbio la nascita di gruppi di pressione di e sui giornalisti. Una sorta di Anti-defamation league in versione gaya.
Non è più pensabile investire tante energie nella riuscita d’iniziative, per poi vedere andare in fumo il risultato per colpa dell’omofobia mai contestata dei giornalisti. I giornalisti, la loro ignoranza, la loro arroganza, la loro supponenza, la loro chiusura mentale, la loro mentalità da Italia che non esiste più da mezzo secolo, sono il prossimo ostacolo da abbattere.
A giudicare dalla proteste che sento attorno a me, il mondo gaylesbico è abbastanza stufo del modo in cui è (mal)trattato dall’omofobia dei massmedia, e quindi una protesta organizzata ha ottime probabilità di successo. Si tratta solo di partire…

INDIVIDUI/GRUPPI.
Un tempo i gay che venivano ai Pride perché militavano o gravitavano attorno a un gruppo erano la maggioranza. Oggi no: la stragrande maggioranza marcia al di fuori e senza uno striscione. È senza dubbio il riflesso di un modo di far politica sempre più individuale e individualistico.
La presenza moderata di striscioni accentua inoltre l’aspetto di "festa di piazza" a scapito di quello di "manifestazione".
Ne va tenuto conto.

LGBT.
Che palle il teatrino del "politically correct". Oltre a Lesbian, gay, bisexual (ma chi li ha mai visti, ‘sti bisex?) e transgender Pride (rigorosamente in inglese, oh yeah), quest’anno ho sentito aggiungere anche "queer" e "intersessuale" (a cura dei genovesi, che protestavano per l’assenza di questa importante categoria concettuale). Dunque, riassumendo, siamo a LGBTQI per dire "gay" (o, se preferite, "frocio"): davvero comodo, pratico, e facile da pronunciare. Ma nessuno qui ha più il senso del ridicolo?
L’unica speranza è che almeno, esaurite le lettere dell’alfabeto, saranno costretti a fermarsi…

MUSICA.
Protagonista indiscussa.
Io non frequento discoteche, ma vedevo che i ragazzi riconoscevano le musiche, si esaltavano, interrompevano un discorso per dire: "Questa è bella" e scappare verso il carro per ballarla.
La discoteca è la modalità prevalente di socializzazione nella nostra società, per etero e per gay, e saper dominare il linguaggio della musica significa riuscire a parlare ai partecipanti, sia gay sia (è importante) etero. Infatti i gay ballavano contenti dietro i carri dei centri sociali eterosessuali, e gli etero si scatenavano dietro i carri dei locali gay.
Anche a me che non sono discotecaro, seguire per un poco un carro con la musica metteva allegria, aumentava l’euforia e la gioia di essere lì. La musica è sempre un miracolo, e il Pride lo ha solo confermato.

NAZIONALE o LOCALE?
Il carattere nazionale del Pride padovano, nonostante il boicottaggio di alcuni gruppetti, è alla fine emerso in modo chiaro, e non certo per incomprensibili trattative fra gruppuscoli sempre più autoreferenziali, ma perché così la gente ha sentito e voluto. I partecipanti sono venuti a Padova perché l’idea che "uniti si vince, divisi si perde" è ormai sufficientemente diffusa, e l’idea di unire le forze in uno sforzo comune, almeno una volta all’anno, piace e appare sensata a tutti.
I Pride di Milano e Roma hanno ormai chiaramente valore locale/regionale: sono le feste gay di queste metropoli, che dal punto di vista gay sono autosufficienti, anzi possono permettersi di esportare partecipazione. Ma Padova, come mille città di provincia (che sono l’assoluta maggioranza, in Italia), ospita un mondo gay assai più piccolo, benché costretto comunque a combattere realtà (partiti, Chiesa) che hanno dimensione nazionale o internazionale. Davide contro Golia…
Dopo il successo di Padova, e l’esplicito gradimento dimostrato per la formula del Pride nazionale, credo sarà meno difficile proseguire in futuro su questa strada.

OMOSESSUALE QUALUNQUE.
È la notte precedente il Pride di Milano (città in cui vivo). Sono in un ristorante cino-giapponese, che costa poco ma ha tavoli assai ravvicinati. Di fronte a me un ragazzo che pare uscito da un depliant di "Checca Vogue", con un’abbronzatura che è un insulto alla campagna contro i melanomi e con una gioielleria intera al collo. Parla con una ragazza, che mi dà le spalle. A un tratto cambia discorso: "Ah, a proposito, lo sai che domani c’è il Gay Pride? Sì, io l’ho scoperto solo ieri. Stavo pensando… sai quel pareo azzurro che ho comprato a Mykonos…".
A momenti mi va di traverso il sashimi. Ma io ho dunque fatto 25 anni di militanza gay per permettere a quella pazza di sfoggiare il suo pareo azzurro?
La risposta è: sì, l’ho fatto per questo. O almeno, anche per questo.
Ho combattuto per una società in cui l’omosessualità diventasse un dato indifferente.
L’omosessualità è un dato trasversale, comune a persone impegnate e superficiali, di destra o di sinistra… solo il pregiudizio fa sì che siamo giudicati tutti nello stesso modo, in merito della nostra "comune" omosessualità. Ma ho combattuto per tutti gli omosessuali, senza discriminazione da parte mia, pazze col pareo incluse, senza stilare elenchi di "buoni" e "cattivi": a quelli ci pensano già gli omofobi.
Inoltre, ancora più importante, venire con un pareo al Pride non è comunque un atto privo di conseguenze: richiede comunque la capacità di un coming out, che a tante militonte manca ancora: sono presenti molti fotografi, le TV…
È un coming out che già centinaia di migliaia di pazze ormai fanno, anno dopo anno, mentre centinaia di militanti Arcigay insistono a frignare che no no no, dirlo a mamma non si può.
Realtà come il "Ricci bar" di Milano, con le sue orride poltroncine leopardate in piena strada, o l’"Elephant" con le sue vetrine non oscurate, sono molto più visibili di realtà Arcigay in cui devi suonare il campanello per entrare.
E se mi si chiede se io ho lottato per 25 anni per avere poltroncine leopardate in mezzo alla strada o catacombe Arcigay blindate, nonostante le esitazioni (…ma proprio leopardate dovevano farle?) opto per le prime.
Benvenuto ai Gay Pride all’omosessuale qualunque, pareo o non pareo.

PROVOCATORI.
Numerosi come le mosche, quest’anno. A Padova Forza Nuova e Casarini hanno cercato di trasformare il Pride in uno scontro fisico e armato, ma l’abilità degli organizzatori è riuscita a disinnescare la minaccia.
A Milano invece un provocatore eterosessuale del Partito radicale s’è piazzato a bella posta dietro al carro del Leoncavallo con una bandiera israeliana: è stato prevedibilmente strattonato dai cazzuti machi eterosessuali del Leoncavallo e sbattuto per terra. Io ero presente (per puro caso), e sono intervenuto strillando come una gallina di fermarsi e come si permettevano; la polizia ha rapidamente posto fine (senza danni per il provocatore) alla cosa.
Il giorno dopo il provocatore era sulle prime pagine dei giornali, è s’è parlato più di lui che del Gay Pride: ottimo colpo (per lui, un po’ meno per i gay). Ha anche avuto la faccia di dichiarare schifato che nessun gay aveva mosso un dito per aiutarlo, mentre eravamo intervenuti in almeno tre froci in sua difesa: la sua malafede è quindi palese.
Il provocatore radicale ha dimostrato che ormai vari gruppi che nessuno ascolta, come radicali o Forza nuova, hanno scoperto che il Gay Pride è un gran palcoscenico privo – per colpa nostra – di spettacolo (si spera solo momentaneamente) su cui chiunque può salire a recitare le sue buffonate.
Che succederà se il prossimo anno venti ratti di Forza Nuova verranno al Pride con le svastiche? L’emergenza-provocatori va prevista da chi organizzerà i prossimi Pride, perché da qui a veri e propri scontri fisici poco ci manca.
Anche la partecipazione degli etero va sottoposta a vincoli: i machos del Leoncavallo, alla mia affermazione che la regola da sempre stabilisce che se si vede un provocatore in una manifestazione si chiamano gli organizzatori e il servizio d’ordine, mi hanno risposto: "Noi siamo abituati ad agire da soli". Applausi: e in quanti altri dovranno venire a casa nostra a dettare legge, e a decidere "da soli" chi espellere dal nostro corteo e chi no, il prossimo anno? E se la bandiera israeliana la portasse un gruppo di gay israeliani, e quella palestinese un gruppo di gay palestinesi, si avrebbe il diritto di espellerle dal corteo? E se sì, chi lo deciderebbe?

QUANTI ERAVAMO?
Per non fare torto a nessuno, diciamo todos caballeros: 30.000 persone circa a tutti e tre. Ovviamente in questo dato spicca il fatto che Padova, con dieci volte meno abitanti di Roma e Milano, ha avuto lo stesso numero di manifestanti, e anche da questo se ne misura il successo (in città una persona su dieci, quel giorno, era un manifestante!).
Sottraendo chi è andato a più d’un Pride, ma aggiungendo coloro che avrebbero voluto esserci (e magari negli anni passati ci sono stati) ma non hanno potuto per vari impegni, oltre al migliaio di partecipanti al Pride di Catania, possiamo calcolare in circa 100.000 persone la massa dei partecipanti ai Gay Pride. Nel 1999 erano circa 10.000. Non siamo ancora al livello di Parigi o Londra, ma non è male, no?

ROMA E MILANO.
Roma e Milano si confermano a pari merito le due capitali gay d’Italia.
Milano ha forse maggiori potenzialità, ma Roma è decisamente più capace di sfruttare già ciò che ha. Inoltre Roma ha un’esperienza pluriennale nell’organizzazione di eventi, e ciò si nota.
Il rovescio della medaglia è che la presenza a Roma di due forti gruppi gay concorrenti, e l’ostilità creata nel mondo commerciale dal fatto che uno dei due gestisce un locale commerciale di successo, crea un handicap allo sviluppo futuro dei Pride romani, che debbono risolvere le contraddizioni appena citate prima di poter decollare appieno.
Da parte sua Milano ospita una realtà commerciale più matura (a Roma l’offerta è ancora inferiore alla domanda, mentre a Milano la concorrenza è spietata perché in certe nicchie l’offerta supera ormai la domanda). Ad essa non corrisponde però una realtà politica forte: la galassia dei gruppi organizzatori del Pride deve ancora risolvere moltissime contraddizioni interne che agiscono da freno (ad esempio, il programma politico del Pride era un capolavoro di alta diplomazia che non diceva nulla d’interessante, ma lo diceva in modo politicamente mooolto corretto). Il rischio è che lo sviluppo futuro dei Pride milanese avvenga nonostante il movimento gay, una prospettiva che a me non pare desiderabile.

SLOGAN.
Quest’anno, ce n’erano meno che mai.
Non si può più contare sulla creazione spontanea da parte dei manifestanti, anche perché una volta gli slogan rimbalzavano da una manifestazione all’altra ("Lotta dura senza paura" diventava "Lotta dura contro natura"), mentre oggi gli slogan tacciono anche nelle manifestazioni d’altro tipo, come ho notato al 25 aprile. Se li si vogliono, vanno preparati e sollecitati prima.
Ma forse l’assenza di slogan riflette solo l’assenza di contenuti di un movimento gay che vive troppo alla giornata e non lancia "parole d’ordine" perché non ne ha? O che non riesce a mettersi d’accordo su nulla e non lancia "parole d’ordine" perché se no rischia la rissa? Non lo so, e mi auguro che non sia così… ma potrebbe anche essere.
Io non sono certo che una manifestazione senza slogan sia la stessa cosa. Per me sono importanti. Ma forse io sono solo un nostalgico di un modo di fare superato dai tempi. Io credo di no, ma il tempo dirà se sbagliavo.

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TRAVESTITI, TRANS E VIADOS.
Una parte del mondo omosessuale dichiara di non venire ai "Pride" perché ci sono "troppi travestiti". In realtà, la percentuale di travestiti in tutti e tre i Pride a cui ho partecipato era uno zero virgola zero qualcosa. Nell’ordine delle decine di persone, con una punta massima a Roma e minima a Padova, ma sempre decina più, decina meno.
In compenso, su certi giornali apparivano solo loro, le trans brasiliane con le tette nude e i culi al vento, e ovunque ci fosse un crocchio di fotografi che si davano le gomitate lì c’era una trans brasiliana con le tette siliconate al vento.
Che fare? Ne ho discusso con alcuni amici, strada facendo: qualcuno infastidito dalle trans ignude (una di loro ha passeggiato con solo un pezzo di scotch sulla passera: bella freeeeeesca!), qualcun altro (me incluso) infastidito dai fotografi interessati unicamente alle trans ignude.
Il problema non è di facile soluzione. Trans e travestiti fanno parte del nostro mondo, sono anzi fra gli iniziatori del movimento di liberazione omosessuale. La festa dell’orgoglio gay è anche la loro festa.
Inoltre, la cultura del Sud (Italia, ma anche Terzo Mondo) è tale che per certi omosessuali del Sud essere gay o essere travestito è la stessa cosa, e quindi per loro manifestarsi come gay implica il vestirsi da donna. Con che diritto possiamo condannare questa cultura, che sarà diversa dalla nostra, ma è meritevole di rispetto (o di rispettosa contestazione) come qualunque altra?
D’altro canto, le trans che a colpi di bisturi costruiscono un corpo da Superfiga non lo fanno certo per rivolgersi al mondo gay, bensì per rivolgersi al mondo eterosessuale. I fotografi arrapati che sbavano loro addosso, o il fatto di venire in manifestazione con "vestiti" achiappa-etero, ne sono la miglior conferma. In quel momento la dinamica è del tutto esterna al mondo gaylesbico: è un gioco rituale che ha a che fare con i fantasmi sessuali dell’immaginario maschile eterosessuale, non con quello gay o lesbico.
Tutto considerato, però, la soluzione stalinistico-epuratoria caldeggiata da alcuni dei miei interlocutori (l’intolleranza esiste anche all’interno del mondo gay…) non è comunque accettabile. Perché è vero che le trans ignude sono lo specchio esatto dell’immaginario erotico maschile ed eterosessuale, ma a voler ben guardare molti di noi non sono forse lo specchio dell’immaginario erotico maschile ed omosessuale? Spesso in modo ancora più acritico e pedissequo? E allora? Due pesi e due misure?
A mio parere la soluzione è un’altra. Se ciò che ci offende non è (come spero) che i viados passeggino assieme a noi, come è loro diritto, bensì che i giornali insistano a pubblicare solo foto di viados brasiliani con la didascalia "Manifestanti gay italiani", allora si tratta semplicemente d’una battaglia per un’informazione corretta. Punto. Si tratta di una battaglia per l’educazione dei giornalisti e dei redattori che scelgono le foto. Si tratta di rivendicare il diritto a un’informazione veritiera, che mostri la manifestazione in tutte le sue sfaccettature, e non sempre e solo in una. Se ogni volta che si parla di gay venisse pubblicata sempre e solo la mia foto, non ci scocceremmo forse tutti, me compreso, per questo fatto?
Dunque il problema è lì. Non è colpa di cento travestiti se, su 100.000 persone, appaiono solo loro. È colpa dei giornalisti che scelgono solo le loro foto. Basta quindi prendersela con altri partecipanti al Gay Pride: è ora di prendersela con chi fa certe scelte, e ne porta la responsabilità.

UNITI SI VINCE.
Qualcuno vada a spiegarlo a certi gruppi gay e lesbici, che si sono opposti ai Gay Pride di quest’anno, anche con attacchi inqualificabili sui giornali eterosessuali.
Certe polemiche, se proprio non possiamo evitarle, andrebbero almeno contenute all’interno del nostro mondo e sui nostri mass-media. Dividere il fronte sputtanandoci a vicenda sui mass-media eterosessuali non giova a nessuno, nemmeno a coloro che hanno orchestrato gli attacchi (che ci han solo perso la faccia).
Visto che la massiccia partecipazione ai Gay Pride anatemizzati ha sconfessato questa linea politica, possiamo sperare, il prossimo anno, di non sentirne più parlare?

VESTIARIO.
Direi sul sobrio andante. D&G si conferma la griffe più presente sulle canotte, ma a parte questo, a tratti pareva una manifestazione di metalmeccanici… con buon gusto nel vestire.
Per disperazione "La Repubblica", per poter pubblicare come ogni anno il solito travestito baraccone a illustrazione del pezzo sul Gay Pride, parlando di Padova ha dovuto spacciare una foto dello spettacolo del giorno prima per una foto del Gay Pride: non aveva trovato nessun altro travestito abbastanza baraccone per poterlo etichettare come: "un manifestante gay".

WC chimici.
A Roma, alla fine della marcia, c’erano. Non è stata una cattiva idea, a giudicare da quanti li hanno usati. Che anche queste basse materialità corporali contino?

ZUZZURELLONI.
Non so più che politico di destra ha definito così i partecipanti al Gay Pride. Buon segno: i nostri nemici non osano più chiamarci in pubblico, come ancora fanno in privato, "rotti in culo", ma non sanno come altro chiamarci… Per questo scappa loro fuori solo un incredibile "zuzzurelloni".
Vengo in loro soccorso e suggerisco per il Pride di Bari anche "felloni", "maramaldi" e, affè mia, azzardo financo "marrani"…

Giovanni Dall’Orto

di Giovanni Dall’Orto

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