I genitori alleatə non sono un miraggio. Al contrario, l’associazione Agedo è punto di riferimento per mamme e papà che vogliono accompagnare i figli dopo il coming out: per ogni giovane cacciato di casa per il proprio orientamento sessuale o identità di genere, ce ne sono altrə cento che non solo trovano accoglienza, ma anche una famiglia disposta a lottare al loro fianco (qui potete leggere la nostra intervista a Cinzia Valentini, direttore dell’associazione)
Quando parlo con Annamaria Fisichella, madre di Alessandro, ragazzo trasgender di 17 anni, mi accorgo che sullo sfondo di un periodo storico che sembra regredire giorno dopo giorno, infarcendo le storie transgender di stereotipi retrogradi fermi al 1990, c’è una rivoluzione più grande che persiste – fatta da uomini e donne con nessuna intenzione di tornare indietro.
Quella di Annamaria è una storia senza ombra di pietismi o retorica tragica, ma il resoconto empatico e onesto di una madre che si scopre, rimette in discussione, e cresce insieme a suo figlio, grazie al potere dell’ascolto.
Madre di tre figli – uno di 27, una di 21, e l’altro di 18 – Annamaria racconta di un bambino che alle gonnelline e le Barbie, ha sempre preferito giocare a pallone o prendere lezioni di scherma. Un figlio che al di là del genere assegnato alla nascita, maschio lo era da sempre, ma lei non l’ha capito subito: “All’epoca pensi solo che abbia il suo stile, che sia solo una femmina mascolina. Nessuno in famiglia l’ha mai costretto a fare qualcosa che non volesse. Preferisci il karate alla danza classica? Fallo, non c’è problema” racconta a Gay.it.
A due anni e mezzo saliva sul gabinetto per fare la pipì in piedi. A cinque dopo le partite di pallone si sfilava la maglietta da dietro come fanno i maschi. Tutti stereotipi e lo dice anche lei : “Noi non ci siamo mai fattə problemi, ci dicevamo che da grande avrebbe scoperto la sua femminilità – oppure sarebbe stata lesbica“.
La pubertà è un capitolo più complicato da decifrare: a dodici anni fa coming out come lesbica, a quattordici arriva la prima fidanzatina. Ma c’è ancora qualcosa che non funziona: “Gli anni delle medie sono stati i più difficili” racconta Annamaria “Aveva paura di essere anormale: ogni sera andava a dormire e sperava di svegliarsi una ragazza lesbica come tutte le altre. Ma quando si guardava allo specchio non riusciva a vedersi”.
Un giorno si imbatte in un video di Francesco Cicconetti – in arte @mehths, attivista e influencer transgender – ed è il momento della rivelazione: non è pazzo, ma ci sono anche altre persone come lui. Sceglie di chiamarsi Alessandro, come Alessandro Magno, suo grande eroe sin da quando era piccolo e si faceva comprare le monografie, e per un anno utilizza i pronomi maschili.
Una sera del lockdown, Alessandro ne parla anche con sua madre: “Eravamo a cena noi due da soli e mi fa: mamma, io adesso ho capito cosa sono, io sono un maschio eterosessuale intrappolato in un corpo da femmina” racconta Annamaria “Io non sono caduta dalla sedia perché non ho capito cosa stesse dicendo. Pensavo solo alle donne donne transgender, perlopiù sudamericane che vivevano per strada. Ma non ho mai pensato che ci fosse anche il contrario. Ero ferma agli stereotipi”.
Durante quel coming out Annamaria ha assorbito tutte le informazioni come se fosse il film di qualcun altro: “Ero anestetizzata. Ma l’ho rassicurato e gli ho detto: non sei anormale, adesso capiremo cosa fare. Più tardi sono andata in camera sua e dormiva come i bambini. Aveva tutte e due le mani sotto i viso, con gli occhi chiusi, e un sorriso a trentasei denti. In quel racconto c’era tutta la sua meraviglia, tutta la sua gioia. Quel racconto era la sua uscita dalla confusione. Mi diceva di non avere paura, perché finalmente esisteva. Io ho sempre avuto un figlio e non me n’ero accorta. Era una crisalide pronta a diventare farfalla”.
Il giorno successivo va in libreria e compra tutti i libri che parlano di giovani transgender, tra storie vissute e saggi di psicologi, e passa il lockdown a studiare. Più legge, più riconosce la storia di Alessandro, e ricompone i pezzi del puzzle: “Non ho mai dubitato la sua verità. Ho passato quei mesi a rileggere tutti gli episodi che avevo interpretato in modo sbagliato. Ho vissuto tutte le fasi: il lutto per una bambina che non c’era mai stata, la paura di parlarne con mio marito e il dolore per tutto quello che mio figlio ha passato in quei cinque anni della sua vita. Mi sono sentita in colpa per non avergli permesso di parlarmene prima.”
Dopo quindici anni è difficile cambiare abitudini, ma anche grazie all’aiuto della psicologa fanno insieme ogni passo.
Quando Alessandro le chiede di fare coming out anche a scuola, Annamaria non sa nemmeno cosa sia la carriera alias: “Gli ho solo detto che dovevamo essere prontə a tutto, anche alla possibilità di lasciare scuola. Ma lui mi ha risposto: ” Mamma se tu lotti con me, io sono qua”.
Contro ogni aspettativa, l’Educandato Statale Emanuela Setti Carraro dalla Chiesa, si è dimostrato più che favorevole: “Stai parlando dell’intimità con persone che hai visto a malapena due volte. Non è stato facile e mi sono immedesimata in tutte quelle mamme che non sono combattenti come me. Ma la risposta mi ha stupita meravigliosamente”.
In classe l’hanno chiamato subito col suo pronome e dopo sei mesi di email inviate al rettore dell’istituto, hanno approvato la sua richiesta.
Quella che in alcuni istituti italiani viene sottovalutata come “un capriccio degli studenti“, è in realtà un mezzo di autodeterminazione potentissimo: permette di andare nel bagno del genere preferito, farsi chiamare con i pronomi giusti, e non vedere più proiettato sul registro elettronico, a caratteri cubitali davanti l’intera classe, un nome che non li rappresenta più.
“La carriera alias è essenziale durante la transizione sociale, perché in quel momento loro hanno solo questo, un nome e un pronome” spiega Annamaria “L’aspetto fisico è sempre lo stesso, e dovrà passare ancora un po’ prima che potranno cambiarlo. Quando sbagliamo i pronomi non pensano che siamo cattivi, ma si sentono inadeguatə. Sentono di dover adeguare il proprio corpo a sé stessə, e lo odiano nel momento in cui non riescono ad affermarsi. Perché quel corpo diventa conferma delle loro paure e insicurezze. Comincia un lavoro per assomigliare all’idea che loro hanno di maschio o femmina, che è un lavoro che spesso psicologicamente fa malissimo. Devi trovare quello che sei tu e accettarlo”.
Un disagio che Annamaria avrebbe risparmiato ad Alessandro tornando indietro, e proprio per questo si dichiara più che favorevole ai bloccanti ormonali, sfatando i falsi miti rifilati dai detrattori di centro destra: “I bloccanti della pubertà servono semplicemente a bloccare in età prepuberale le manifestazioni secondarie del sesso di nascita e sono assolutamente reversibili” mette subito in chiaro.
Alessandro, come tantə altrə ragazzə transgender, fa controlli di routine ogni tre mesi, e gli endocrinologi confermano che lə giovani transgender sono tra lə più controllatə e seguitə. Nessunə dice che prendere gli ormoni sia una passeggiata e la preoccupazione è sempre dietro l’angolo, ma proprio per questo è fondamentale affidarsi a chi ne sa di più.
Come spiega Annamaria, non parliamo nemmeno più di transizione, ma affermazione di genere. In tutto questo, il compito dei genitori è accompagnare lə ragazzə, a discapito di una società che continua a ripetere che sono sbagliatə.
“A sedici anni non sanno nemmeno cosa vogliono fare nella vita” diranno i detrattori, parlando d’identità di genere come un capriccio dall’oggi al domani, qualcosa che ti svegli una mattina e decidi all’improvviso che sei maschio o femmina, ma la storia di Alessandro, e mille altrə giovani, è lo step di un percorso di consapevolezza lungo, delicato, e immensamente personale: “Se adesso ne vengono fuori due miliardi è perché sono più liberə e lə ragazzə lo capiscono prima cosa sono. La consapevolezza arriva prima” dice Annamaria, ribadendo: “Ma chi vorrebbe buttare una bomba del genere con il rischio di farsi prendere per il culo dal mondo intero, se non è l’unica cosa vera che sentono? “
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