Ci mancavano le lesbosisters. Il tema dell’incesto femminile al cinema non ha mai trovato terreno molto fertile e tra i grandi solo Bernardo Bertolucci tentò di parlarne ne ‘La luna‘, facendo innamorare di insana passione una madre del proprio figlio quindicenne. Il radicale Michael Haneke osava ancora di più ne ‘La pianista‘, unendo di morbose attrazioni la nevrotica Erika Kohut, interpretata da una magistrale Isabelle Huppert, alla mamma Annie Girardot facendole gridare: “Ho visto i peli del tuo sesso!”.
L’esordiente italiana Giada Colagrande, classe 1975, pescarese, torna sull’argomento senza approfondire molto la questione col suo ‘Aprimi il cuore‘ (distribuzione Lucky Red), di cui è soggettista, sceneggiatrice, regista e anche protagonista. Due sorelle vivono in un’abitazione semispoglia amandosi carnalmente ma senza gran trasporto. Una si prostituisce accogliendo i clienti in casa, con l’altra che studia silenziosa mentre il vecchio letto non smette di cigolare. Le fa anche da mamma, lavandola e cucinando per lei. L’unica occasione di svago sono le lezioni di danza dove conosce un custode e se lo porta a casa. La sorella la spoglia, la offre in silenzio all’uomo che la possiede con forza. Però poi lei si ingelosisce e decide di avvelenare lui e tutti i clienti a colpi di vino rosso mentre la moglie del custode, alla ricerca del marito, finisce proprio a casa delle due sorelle killer.
Tipico esempio di cinema sperimental-pauperistico non riuscito in cui un’idea abbastanza originale non viene sviluppata in una sceneggiatura sensata (la Colagrande ha chiesto 20 milioni alla nonna per fare il film che ne è costato 70), ha tra i pochi motivi di interesse un paio di scene di sesso (ma di lesbico ce n’è solo una e molto casta) che sono semplici piani fissi fotografati in penombra alternati a immagini sacre di angeli e Madonne. Se bisogna riconoscere che l’autrice evita alcune trappole adottando uno stile asciutto e lavorando di sottrazione nei momenti di intimità tra i personaggi, l’idea di ambientare un film interamente in un appartamento e nel cortile della scuola di danza ha troppo poco respiro per una storia così esile e inconsistente, facendo precipitare nel tedio gli smaliziati (e pochissimi) spettatori. Cameo del regista torinese Tonino De Bernardi nel ruolo di uno dei clienti in età.
Alla Colagrande consigliamo di rivedersi ‘Le lacrime amare di Petra Von Kant‘ di Fassbinder e cercare un montatore del suono migliore (la qualità è tremenda). Pollice su invece per la coprotagonista Natalie Cristiani, azzeccata grazie al suo volto puro e michelangiolesco, anche se storciamo il naso quando si mette a citare inopinatamente Dante e Keplero rivelando al custode che lei a scuola non è mai stata e ha sempre studiato a casa.
E viene anche il sospetto che l’operazione sia un po’ studiata a tavolino, col proposito di attirare l’attenzione su una storia di incesto lesbico che si limita a tratteggiare due personaggi quietamente chiusi nella loro quotidianità senza sfumature né giustificazioni. Deludente.