A pochi giorni dalla polemica sulle parole di Barbara Palombelli sulle vittime di femminicidio e il rapporto con il loro carnefice, a sua detta da indagare anche in senso alternativo rispetto a quello comune, Forum torna a far parlare di sé. E lo fa con la causa andata in onda martedì 28 settembre, che ha accolto la causa tra due fratelli, Gabriel e Michela, con questa chiamata in giudizio dopo aver respinto la richiesta di soldi da parte del primo.
Protagonista indiscusso del dibattimento è stato appunto Gabriel, adottato da bambino dalla famiglia di Michela, dopo essere rimasto orfano di entrambi i genitori, morti per overdose. Nato da padre afroamericano a Memphis, negli Stati Uniti, Gabriel viene accolto così nella terra natale della madre naturale, l’Italia. Il ragazzo, che sin da piccolo rivendica la libertà dalle etichette legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale, si identifica come queer. L’atteggiamento nei confronti del mondo di Gabriel non vengono appoggiati dalla sorella, che rifiuta di sostenerlo economicamente, nonostante i suoi riconosciuti problemi di carattere psichico. Gabriel è infatti affetto da disturbo bipolare maniacale e percepisce una piccola pensione di invalidità, stando alle sue parole insufficiente a garantirgli un tenore di vita adeguato, ed è stato inoltre truffato da un amico. L’astio di Michela nei confronti del fratello, determinato secondo lui da una certa omofobia interorizzata, affonderebbe le radici nel legame strettissimo tra il ragazzo e la madre adottiva, ormai scomparsa, che non avrebbe mai nascosto un affetto maggiore per Gabriel.
Una causa familiare, di quelle che affollano i tribunali di mezzo mondo, che pure ha posto gli interessi in ballo in secondo piano nel corso del talk successivo all’udienza. Come avviene spesso a Forum, infatti, il processo fittizio è solo il pretesto per discutere ad ampio spettro di argomenti di attualità. In questo caso l’identità queer, fatta incrociare però con i temi dell’adozione, ma anche dei disturbi psichici. Un’operazione realizzata sul filo del rasoio, quasi un’indagine anamnestica per comprendere la natura di una persona, che non obbligatoriamente si riconosce unlabeled dopo un trauma o per effetto di una malattia. Pur non essendo mai esplicitato il legame diretto fra i temi, le strette connessioni fanno sì che il risultato finale sia un mappazzone dai contorni indefiniti, che lascia all’indeterminato e allo stereotipo grande campo d’azione.
Il dubbio sulla concreta sincerità nel voler fare chiarezza su temi che riguardano da vicino la comunità arcobaleno è palpabile. Non è sufficiente un servizio di una manciata di secondi, che illustra il significato della sigla LGBTQ+ per sopperire agli eccessi di spettacolarizzazione (uno fra tutti, la performance canora di Gabriel, che percepisce sé stesso come reincarnazione di Aretha Franklin, effetto di un disturbo che non deve offrire motivo di intrattenimento), disseminati nel corso delle due ore di trasmissione. Una libera manifestazione dell’essere, fatta passare senza troppi scrupoli come riflesso di un’alterazione patologica, in una forma di simmetria che svilisce ogni discussione contro lo stigma, sia quello legato alle persone che non si riconoscono come eterosessuali o cisgender, sia quello connesso alle malattie psichiche. Anzi, finisce quasi per rafforzarlo, tra stereotipi e false credenze. Tutto è recitato, nel tribunale tv ciascuno ha un copione: che sia spesso la fantasia a superare la realtà?
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