Ci sono saggi che si leggono come romanzi. Rari, ma esistono. Il tipo di argomento aiuta, serve a catalizzare l’attenzione, ma il resto lo fa lo stile di chi scrive. E il saggio, esattamente come il romanzo, richiede acume di pensiero e levità di penna. Nel suo Gay Berlin. L’invenzione tedesca dell’omosessualità, Robert Beachy (Underwood International College) ha raccolto con eleganza e destrezza le tessere di un mosaico che nessuno aveva ancora riunito.
Gay Berlin è la storia di una Germania lontana sia nel tempo che nella memoria. È la storia di una Germania aperta, accogliente e tollerante. Affamata, povera, indebitata, sconfitta eppure sorprendentemente all’avanguardia. Avanguardia, una parola che non ho scelto a caso. Perché quella Germania lì – la Germania di Weimar e del Bauhaus – era anche la Germania dello sballo, della provocazione, dei locali equivoci di Berlino e di Magnus Hirschfeld, il primo medico ad aver usato la scienza per aiutare gli uomini e le donne che provavano attrazione per il loro stesso sesso o non si riconoscevano nel proprio.
Hirschfeld era un pioniere nel suo campo, un autentico avvenirista. In un’epoca in cui le devianze sessuali erano ancora severamente sanzionate, lui riconobbe il peso che le istanze psico-fisiologiche avevano sul malessere dei suoi pazienti. E capì la necessità di trattare clinicamente il loro disagio. Ma non per “guarirli” e riportarli sulla “retta via”, bensì aiutandoli a essere ciò che erano o a diventarlo.
Sessuologo, attivista e ispiratore del primo movimento omosessuale della storia, oggi Hirschfeld è ricordato soprattutto per essere stato il medico che ha aperto la strada agli interventi chirurgici transgender. Nella sua clinica berlinese arrivavano pazienti di tutti i tipi e con storie di ogni sorta, dal resto della Germania e non solo. La sua fama di medico era in tutto paragonabile a quella delle star in camice bianco protagoniste degli odierni reality. Se l’era costruita sull’esperienza e su una specializzazione unica nel suo genere, ma aveva anche saputo promuovere il proprio lavoro con articoli, conferenze e battaglie sul campo. La sua stessa clinica divenne qualcosa di più: un vero centro di studi con tanto di museo e biblioteca, denominato Istituto per la Ricerca Sessuale.
La ricostruzione della storia di Magnus Hirschfeld e del suo Istituto (distrutto nel 1933 dai nazisti) rappresenta il fulcro di Gay Berlin, ma non è l’unica vicenda a catturare l’interesse. La Berlino degli anni Venti era una città in piena trasformazione e offriva opportunità altrove impensabili. I suoi locali erano conosciuti in tutta Europa per la singolare tipologia di servizi che erano soliti dispensare. Musica, balli, alcol, droghe e soprattutto trasgressione sessuale. C’erano posti in cui operai e giovani squattrinati si prostituivano abitualmente, e gli avventori consumavano rapporti più o meno completi con il benestare della polizia. Il tacito accordo con le autorità (che tuttavia non escludeva qualche retata di tanto in tanto) era fragile ma reale. Alla base c’era il rispetto di una semplice regola che ogni contesto “tollerante” ha sempre imposto alle comunità gay: fate, ma non date nell’occhio.
Simile alla Città del Messico raccontata da Burroughs, durante il suo primo dopoguerra Berlino era nota come la capitale europea del turismo omosessuale. Ben prima che Robert Beachy lo ricostruisse, questo volto della città è stato immortalato nelle pagine di una straordinaria generazione di scrittori e artisti. Tra loro c’erano nomi importanti: Klaus Mann, Stephen Spender, Wystan H. Auden e Christopher Isherwood, poi autore di Addio a Berlino, romanzo manifesto di quegli anni. Le foto che corredano il volume li ritraggono felici in compagnia di altri ragazzi, in città o sulle rive del Baltico. Si tratta di scatti preziosi, frammenti di un passato che il nazismo ha seriamente rischiato di cancellare per sempre.
Fu soprattutto questo il motivo per cui Auden e Isherwood non riuscirono a vivere a Berlino come avrebbero voluto. Quando vi arrivarono era già cominciato il tramonto di quell’epoca. Riuscirono comunque a fare il pieno di esperienze e a godere della libertà che sognavano. Sono loro i personaggi indimenticabili di Gay Berlin, i più noti fra i tanti, giovani e anonimi sognatori che trasformano questo saggio minuzioso ed erudito, così attento alle fonti, in una narrazione vibrante e appassionata. Incrociarli fra le pagine del libro di Beachy è quel regalo in più che ti fa una lettura che è già bella di per sé.
Un altro nome da aggiungere alla galleria di personaggi di Gay Berlin è il protagonista assoluto delle prime pagine. È il nome di un uomo che ad alcuni può non dire molto, ma che non sfuggirà a chi conosce la storia delle rivendicazioni per i diritti civili: Karl H. Ulrichs. Di professione avvocato, fu lui il primo attivista, teorico e divulgatore dei diritti e dell’identità omosessuale. Una figura particolare, di sicuro eccentrica, ma anche in possesso di grandi capacità. Dichiarando il proprio orientamento sessuale in un periodo storico impreparato e ostile come la Germania guglielmina di fine Ottocento, il suo esempio rimane ancora oggi di grande ispirazione.
Lo stesso Beachy dedica a Ulrichs e ai suoi scritti molte pagine. Da bravo storico, sa che le risposte alle domande che ci si è posti si trovano a monte e che difficilmente si rimane delusi. Il risultato che ha ottenuto è così una ricostruzione verosimilmente completa. Un racconto che, oltre a riunire quasi mezzo secolo di storia tedesca ed europea, fornisce pure la ragione del sottotitolo dell’edizione italiana di Gay Berlin.
L’invenzione tedesca dell’omosessualità (un gioco di parole forse azzardato, e comunque abbastanza diverso dall’originario Birthplace of a Modern Identity) non deve infatti essere letto in chiave interpretativa. La sua presenza è forse discutibile ma di sicuro motivata. Vuole soltanto sottolineare il ruolo preminente che la Germania e i tedeschi hanno avuto nella costruzione dell’identità omosessuale e nella definizione del genere gay. L’unica invenzione cui fa riferimento è pertanto quella dell’omosessualità come categoria culturale.
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