L’invidia non è un vizio

Vi capita di essere invidiosi? E per cosa? Io mi sono pacificato con la mia invidia ammettendo che dichiarare al contrario di non esserlo è sostanzialmente un segno di grande superbia.

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Diego mi aveva avvertito in anticipo che il party dove stavamo andando (del quale io ero imbucato d’onore) si trattava in realtà di una festa durante la quale ci sarebbe stato l’annuncio a sorpresa del matrimonio di due suoi amici. In quell’occasione uno dei due avrebbe chiesto all’altro di sposarlo, davanti agli occhi testimoni dei loro amici più cari. È dalla prima ora che predico instancabilmente la parità di diritti tra coppie etero e omosessuali sostenendo un approccio massimalista che rifiuta i compromessi proposti dai Dico, i Didoré e i Fantaghirò: per me deve essere matrimonio, laico certo, ma nulla di meno. Nonostante questo fervido attivismo però, mentre salivo le ripide quanto strette scale a chiocciola che ci portavano al loro appartamento al quarto piano (Parigi è tanto tecnologica e all’avanguardia ma se si tratta di ascensori è ferma all’avvento dell’industrializzazione) pensavo a tutta questa storia della richiesta di matrimonio e la trovavo un clichè da sceneggiato di Rosamunde Pilcher che mai avrei pensato di mettere su se avessi avuto intenzione di chiedere la mano del mio compagno.

Varcata la soglia, tutta la faccenda sembrava piuttosto surreale, troppo perfetta, troppo "come ti immagini nei sogni di ragazzino vorresti venisse chiesto anche a te di convolare a nozze ma il cinismo della vita ti porta a credere che questo non potrà mai accadere". Diego mi aveva confermato che tutti sapevano il motivo reale della convocazione tranne appunto uno dei due fidanzati. E poi accade.

Paul, il biondo dei due prese un calice in mano e picchiettandolo con una posata chiese l’attenzione degli invitati. Quello che usciva dalla sua bocca non mi era affatto chiaro ma guardando gli sguardi commossi degli amici e il "oui" finale detto dal suo compagno quasi in lacrime mi diedero la certezza che gli aveva appena chiesto di sposarlo. Seguì un applauso scrosciante al quale mi unii sbattendo le mani con l’entusiasmo di un ottuagenario, semi sbronzo e appoggiato allo stipite di una porta e dovetti fare uno sforzo erculeo subito dopo per mostrarmi invece entusiasta con i futuri sposi, augurando loro tanta felicità in un francese che sembrava quello di Francesca Dellera.

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Perché ero così maldisposto? Semplicemente perché nonostante fossi davvero contento per loro (o quantomeno per come lo potevo essere per due sconosciuti), non potevo negare che davanti a tanta perfezione ero stato corrotto dal fascino sterile dell’invidia. In vita mia ho sempre pensato che questo fosse un sentimento meschino prima ancora che umano. Così, ogni volta che mi capitava di provarlo sentivo un senso di fallimento per non aver avuto la forza di soffocarlo, di contrastarlo e infine di annientarlo definitivamente dai colori della mia personalità.

Poi un giorno di tanti ma tanti anni fa, durante una delle mie ere psicoanalitiche (credo fosse la seconda o la terza, non ricordo bene anche perché le due ultime psicologhe si somigliavano un po’) mi sentii dire una frase di quelle che ti ripagano per tutti i soldi spesi per stare seduto su una poltroncina a raccontare cazzi tuoi al prezzo di una cena preparata da Heinz Beck.

"Mi ascolti bene Alessandro", nonostante mi conoscesse meglio di mia madre, ci teneva a che ci dessimo del "lei". "Non c’è nulla di sbagliato nel provare invidia. Male è semmai agire per invidia". E a quel punto si squarciò il cielo e un fascio di luce bianca trasse la mia analista nell’Olimpo delle divinità laiche. Da allora mi sono pacificato con la mia invidia ammettendo che dichiarare al contrario di non esserlo è sostanzialmente un segno di grande superbia (e lì si ricadrebbe comunque in un altro vizio) e ho imparato ad essere molto più indulgente con questo sentimento, mentre ho lavorato (per quanto ho potuto) sulla seconda proposizione espressa dalla mia analista: l’impegno a non agire per invidia, perché un conto è sentirla per chi ha più soldi di me, per chi ha un fisico scolpito nel marmo o per colore che hanno coronato un sogno d’amore disneyano, un altro è sproloquiare e maledire affermando con malevolenza che il primo se è ricco vuol dire che è un ladro, il secondo se è bono sarà almeno scemo e i terzi se ora si amano sono destinati a lasciarsi entro la fine dell’anno.

E voi, siete di quelli che ammettono di essere invidiosi? E per cosa lo siete?

di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti

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