Quando parliamo di queer coding ci riferiamo a un concetto cardine nella discussione accademica riguardante la rappresentazione di persone queer nei media. Facendo riferimento tanto agli studi di genere quanto alla teoria queer, l’esistenza di un “codice queer” ha fatto sì che, nel sottotesto di un’opera artistica, si potessero cogliere diversi riferimenti impliciti per poter considerare l’opera stessa come queer o trovare un personaggio che suggerisse la sua appartenenza alla comunità. Da un lato, tuttavia, l’atto di riconoscimento da parte del pubblico è per anni stato possibile attraverso l’utilizzo di tratti stereotipati e spesso offensivi caratterizzanti personaggi non normativi; dall’altro, questo ha però permesso di poter includere nei media soggetti queer, sebbene non presentati esplicitamente come tali. D’altronde, il Codice Hays, redatto nel 1930, regolava ferreamente ciò che si poteva e non si poteva mostrare sullo schermo. Tra i temi vietati in quanto immorali c’era quello dell’omosessualità.
La Sirenetta è la storia mainstream più queer che possediamo. Fin dalla sua uscita nel 1989, il 28° classico d’animazione Disney si è conquistato il primato delle storie LGBT dell’infanzia. Perché la storia è così importante per noi? Come mai l’eco della voce di Ariel risuona ancora in tutta la nostra comunità? Cosa rende La Sirenetta un emblema dell’identità queer? Scopriamolo insieme, in attesa del live-action nelle sale dal 24 Maggio.