L’arte sperimentale contemporanea non sarebbe stata la stessa senza il nome che ne ha segnato alcuni dei punti salienti, tra musica e arte, diventandone uno dei personaggi di spicco della scena avant-garde di New York. Stiamo parlando, naturalmente, di Laurie Anderson. La performance artist e musicista nata a Chicago nel 1947 è una delle pioniere dell’avanguardia più sperimentale della musica e dell’arte visiva degli anni Settanta e Ottanta. E ancora oggi le sue creazioni non perdono di significato e importanza.
Reduce da un’imponente mostra a Washington DC intitolata “The Weather”, Laurie è volata nelle Alpi svizzere per ricevere il Vision Award Ticinomoda al Locarno Film Festival, un premio dedicato a coloro che hanno ampliato gli orizzonti dell’immaginario cinematografico. Anderson è stata insignita del premio non solo per il meraviglioso film-concerto Home of the Brave, ma anche il suo primo lungometraggio Heart of a Dog del 2015, nel quale il suo linguaggio universale è riuscito a parlare alla mente e al cuore degli spettatori.
«Apprezzo davvero l’arte povera. Devo dire sempre di più, perché ora sto lavorando a un’opera e sto cercando di farla… fatta di niente. Gran parte del mondo dell’arte ora è così corporativo e tutto è così grande. Quando vado ai festival del cinema, non me ne accorgo molto nei film. Voglio dire, naturalmente ci sono i grandi blockbuster di Hollywood, ci sono tutti i tipi di cose in streaming e le aziende stanno facendo di tutto con il cinema, ma ci sono ancora film indipendenti. È una cosa fantastica». Così ha iniziato a parlare Laurie Anderson quando l’abbiamo incontrata in una delle ultime giornate del Locarno Film Festival. In una mezz’ora che ha accettato di condividere con noi di Gay.it e altri tre giornalisti svizzeri e tedeschi, Anderson ha parlato dell’arte e del mondo contemporaneo in modo così sincero e profondo che si sarebbe volentieri rimasti lì ad ascoltarla, senza fare domande.
L’amata compagna di Lou Reed, che ha vissuto uno dei periodi più vivi, dinamici e fecondi dell’arte contemporanea, ha ricordato quasi con nostalgia quei tempi, rammaricandosi del fatto che ormai non esistano più: «Non c’è nessuna scena del genere. È tutto molto corporativo. Quindi il nuovo tipo di centro culturale è puramente aziendale. La comunità artistica è un prodotto. È diventata un qualcosa per i miliardari, che vivono ai piani alti, per avere la comodità di scendere in cantina e vedere un’arte ben curata ma superficiale».
La sua mostra The Weather, realizzata in modo imponente ma allo stesso tempo artigianale, in cui centrale è stato ancora una volta il suo corpo, è l’ennesima performance che include la tecnologia. Da tempo, infatti, Laurie Anderson è passata al VR, la realtà virtuale che permette di creare in digitale continuando però a utilizzare il proprio corpo. «Nel VR hai bisogno del tuo corpo, devi girarti, devi muoverti, devi fare delle cose. È un cinema visivo con il corpo».
E mentre racconta dell’ultimo libro che ha letto, sul realismo capitalista di Mark Fisher, inizia a riflettere sul nostro mondo: «Nel libro è facile immaginare la fine del mondo come la fine del capitalismo. E lì ti rendi conto che siamo davvero catturati da questa frenesia tecnologica. Cinema e VR sono entrambi modi incredibili per sperimentare la visuale, ma non so cosa sia interessante per me. So che l’ipnosi in cui tutti sono coinvolti ora è spaventosa».
«Quindi cosa c’entra questo con il cinema o come si collega a come noi elaboriamo le immagini, sapete? E come si rapporta alle storie che sono sugli schermi?»
Nella sua grandezza, e spinta da una nostra domanda, Laurie va oltre, pensando a come questo elaborare immagini in digitale si colleghi – o si sovrapponga – alla fluidità di genere che sempre più siamo in grado di percepire. Forse non è scontato per molti, ma per lei sicuramente è una risposta facile. La sua arte ha sempre giocato con la fluidità e molti dei suoi album in studio portano in copertina il suo alter ego maschile, Fenway Bergamot, il cui nome è stato suggerito proprio da Lou Reed.
«Le categorie sono da sciogliere e non sei solo maschio o femmina. È una cosa fantastica uscire dai ruoli che vi sono assegnati. Ed è anche meraviglioso essere in un ruolo. Se abbiamo uno spirito più giocoso riguardo a questo, possiamo dire che puoi oltrepassare i limiti ogni volta che non devi essere per forza come sei. Si chiama libertà»
L’arte è libera perché chi la crea e chi ci vive dentro la percepisce così, e allo stesso modo Laurie Anderson sceglie di leggere il mondo che la circonda. «È la libertà di fare cose nuove e di non spingere tutto in una categoria e giudicarla. Alcune cose sono nella categoria sbagliata. Ad esempio, se si fa una torta e cade, la torta è venuta molto male, ma diventa un delizioso pancake»
«È solo il linguaggio che stai usando per dire buono o cattivo, o su o giù. Quindi diventa come dire che la fluidità di genere rende tutto più libero»
La narratrice di storie, come lei stessa si definisce, sorseggia una tazza di caffè mentre salta da una parte all’altra della sua incredibile mente, passando dalle nuove frontiere tecnologiche alle prossime storie che deve ancora raccontare. Ma cosa significa raccontare una storia per Laurie Anderson? Una domanda che vale tutto e a cui è difficile rispondere. Anche per lei. «Mi interessano i motori delle storie, non particolarmente il cosa. Non finiremo mai le storie. Siamo esseri umani, ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di trovare un significato».
«Sfortunatamente molte ora parlano di una spirale discendente, cambiamenti climatici, boom, tra 50 anni, boom, tra 500 anni, boom. E non c’è nessuno. Queste sono le storie dominanti, direi, al momento. Ed è diventata una specie di pornografia apocalittica, continuare a ripeterlo». Un’etichetta che forse solo lei avrebbe potuto coniare per l’inesorabile clima pessimista a cui ci siamo abituando ma in cui continuiamo a vivere, forse anche per quella punta di voyeurismo che inevitabilmente ci rappresenta.
Le cose non stanno andando bene, anche Laurie lo sa. Ma fortunatamente è ancora convinta che l’arte possa sopravvivere, nonostante tutto: «Quando racconti una storia, la racconti a qualcuno. Quindi quando racconti una storia sulla fine del mondo, cosa significa? Perché significa che non stai raccontando una storia a nessuno. Ma nonostante non ci sia nessuno, è ancora una storia anche se non la racconti a qualcuno».
«[L’arte] è sempre stata una questione di sopravvivenza», e la naturalezza con cui Laurie Anderson pronuncia queste parole è disarmante, un’ovvietà che non tutti sono abituati a prendere sul serio. «È anche la continuità della fine. E il presupposto con cui lo facciamo andrà avanti nel futuro. Ecco perché la narrazione della cosiddetta fine del mondo, così terribile e funky e strana, è come cercare di immaginare l’inizio del mondo quando siamo usciti strisciando dall’acqua».
«Se succede di nuovo, avremo qualche ricordo che ci siamo lasciati per le prossime persone che verranno strisciando fuori dall’oceano? Vogliamo dire loro qualcosa? Dove lo scriveremo, sulla luna? Non su questo pianeta»
Cover image source: Laurie Anderson Instagram
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