Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Qatar, Bahrain ed Egitto: sono questi i sette paesi che la scorsa settimana hanno rilasciato attraverso un processo legale una richiesta affinché le piattaforme streaming come Netflix e Disney+, molto seguite nel Medio Oriente, tolgano dai loro cataloghi i film e le serie tv con contenuti inappropriati. I contenuti, ovviamente, sono quelli che ritraggono persone LGBTQ+ e donne emancipate e indipendenti.
Non è la prima volta che, in quei Paesi dove l’omosessualità è illegale e la censura di Stato è estremamente forte, i contenuti mediali sono censurati e tagliati. Ci ricordiamo delle notizie all’uscita di film come Lightyear, Thor: Love And Thunder o Eternals, banditi dai Paesi mediorientali per includere personaggi che andavano contro il buon costume delle loro tradizioni.
Nel 2019, inoltre, Netflix è incappata in un altro caso simile: le autorità egiziane avevano chiesto la rimozione di un episodio della serie Patriot Act, in cui il comico Hassan Minahj criticava il principe Mohammed per l’uccisione di un giornalista del Washington Post e denunciava il coinvolgimento dell’Egitto nella guerra in Yemen. La piattaforma aveva tolto l’episodio, scatenando le ire degli attivisti.
I Paesi coinvolti hanno tutti rilasciato delle dichiarazioni ufficiali. In Arabia Saudita è stata anche mandata in onda sulla tv di Stato un’intervista a una presunta consulente comportamentale, che ha definito Netflix come “sponsor ufficiale dell’omosessualità”. In qualsiasi altro contesto sarebbe un titolo che farebbe sorridere e magari nascere qualche meme online. Ma la realtà che si cela dietro le accuse ai servizi streaming è che i diritti LGBTQ+ sono in questi Paesi del tutto assenti. La stessa cultura di massa promuove un clima di odio contro le persone queer in nome delle tradizioni e della cultura islamica, essendo questi territori a maggioranza musulmana.
Durante il servizio mandato in onda, è stata mostrata come esempio una scena da Jurassic World: Camp Cretaceous, una serie animata per bambini in cui si vede un bacio tra due ragazze, che nelle scorse settimane aveva prodotto le rimostranze anche delle autorità per il controllo dei media in Ungheria, dove è stata fatta partire una vera e propria investigazione.
Negli ultimi anni qualche piccolo passo avanti è stato fatto, ma i diritti LGBTQ+ sono ancora impensabili. E lo stigma sociale attorno alla parola queer si fa sentire, come quando gli Emirati Arabi hanno vietato ad Amazon la query “queer” durante il mese del Pride. Per non parlare del fatto che i sette Paesi fautori della richiesta sono anche quelli in cui i siti web di associazioni e organizzazioni LGBT vengono censurati e oscurati dalla rete.
Le nuove generazioni sono leggermente più liberali rispetto ai genitori o ai nonni, che appartengono ad altri tempi. Riescono a vedere in modo diverso temi come sesso, alcool e altri tabù considerati tali dalle tradizioni, ma in quanto al mondo LGBTQ+, la sua criminalizzazione è ancora ben radicata. Almeno nelle frange più tradizionaliste.
Dietro lo scontro con Netflix e le piattaforme streaming, in realtà, si celano anche motivazioni strettamente economiche. Da anni, infatti, il Medio Oriente sta cercando di minare il successo delle piattaforme streaming, che contano milioni di spettatori a scapito delle produzioni e dell’industria dell’intrattenimento nazionali.
Dalla sede di Los Gatos, in California, Netflix non ha ancora risposto alle dichiarazioni né alle richieste ufficiali, così come anche Disney+ rimane ancora in silenzio. Dovessero però questi colossi dello streaming cedere alle pressioni dei governi, che hanno minacciato importanti sanzioni se non venissero ascoltati, il tutto si tradurrebbe in un grave colpo senza precedenti alla libertà artistica e d’espressione. Ancora una volta, la realtà si sente minacciata dalla finzione, che rischia di essere limitata da ideologie tradizionaliste.
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