Siamo in Molise, al Tribunale di Campobasso, dove una sentenza storica potrebbe cambiare radicalmente l’approccio giuridico alle procedure per la transizione di genere.
Una donna trans ha infatti ottenuto il permesso legale di cambiare il proprio genere anagrafico senza la necessità di sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione. La seconda sentenza di questo tipo nel 2023 nel nostro paese: il primo caso è del 16 luglio.
Il caso
La decisione è stata recentemente resa pubblica dalla divisione civile guidata da Enrico Di Dedda, con Emanuela Luciani in veste di giudice relatore ed autrice del documento. Un evento senza precedenti in Molise, e uno dei primi casi del genere in tutto il territorio nazionale.
Se in altri paesi come la Spagna l’autodeterminazione di genere non è vincolata all’operazione chirurgica di riassegnazione, in Italia l’iter è decisamente più lungo e intricato.
Una semplificazione di tale natura potrebbe rafforzare la legittimità delle identità transgender, incoraggiando coloro che stanno considerando la chirurgia di genere a procedere con maggiore serenità, e offrendo a chi non ritiene tale intervento necessario la possibilità di esprimersi senza ostacoli superflui e senza la necessità di coming out forzati in contesti a rischio.
“È un provvedimento che resterà nella storia. Il tribunale di Campobasso – spiega l’avvocata Fabiola De Stefano – ha seguito la pioneristica giurisprudenza avellinese dimostrando una grande apertura sul piano del diritto e prevedendo l’identità femminile a un giovane che ne ha fato richiesta. È una sentenza innovativa e rivoluzionaria per la quale sono ampiamente soddisfatta“.
La recente sentenza segue un caso precedente del 16 luglio di quest’anno, in cui il tribunale di Trapani aveva stabilito il diritto di una donna siciliana di 53 anni di modificare nome e identità di genere all’anagrafe, senza la necessità di sottoporsi a terapia ormonale o intervento chirurgico.
Un verdetto raggiunto dopo due decenni di lotte e umiliazioni, che ha però agito come un catalizzatore.
Il principio giuridico utilizzato nella sentenza fa fede tuttavia a quello delineato da una decisione della Corte di Cassazione nel 2015. In quell’occasione, la Corte aveva autorizzato un’altra donna transgender a ottenere il riconoscimento legale della sua identità di genere prima di sottoporsi a un intervento chirurgico, che nel suo caso era già programmato.
Le polemiche
Non sono mancate le polemiche, con l’associazione Pro Vita & Famiglia subito intervenuta sulla questione.
“Le conseguenze di queste decisioni del Tribunale possono essere devastanti e stanno già arrivando moltissime polemiche e commenti critici – si legge in un articolo sul blog della ONLUS – Innanzitutto, infatti, la decisione è contraria alla legge vigente e per questo sono molti i dubbi sulla legittimità. Inoltre, cosa molto più importante e grave, cosa sarà di queste future donne che si auto-percepiranno come tali – nei contesti dedicati esclusivamente proprio alle donne?”.
Se tralasciamo il fatto che la retorica di Pro Vita non prende neanche in considerazione l’esistenza di uomini trans, a chi porta punti di vista simile è bene far notare che la presenza di un organo sessuale “maschile” non determina necessariamente l’insorgere di comportamenti predatori o violenti nei confronti delle donne.
È bensì la concezione patriarcale e di sopraffazione che influenza il modo in cui gli uomini si approcciano al genere femminile. Altrimenti, si cade nella pericolosa trappola dell’essenzialismo biologico.
Sono sporadici e sensazionalizzati gli episodi spiacevoli correlati alla presenza di donne trans in spazi esclusivamente femminili. Più prevalenti invece le violenze subite quest’ultime in ambienti canonicamente frequentati da uomini cisgender.
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Confermo, oltre all'operazione chirurgica c'è la castrazione chimica.