Paola & Chiara e Arisa: forse non dovremmo chiamarle madrine ma ally?

Una riflessione pacata su quanto accaduto durante il Roma Pride (di Vincenzo Branà).

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paola e chiara arisa
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Riflessione pacata, e a posteriori, proposito di quanto accaduto durante il Roma Pride tra Paola & Chiara ed Arisa.

Forse dovremmo innanzitutto rottamare il termine madrina, che porta in sé tanto la traccia di quella madre “severa e spaventata” che Arisa ha intravisto dietro Meloni, quanto il
richiamo a una mamma a cui si fa ricorso quando ci si è messi nei guai.

In quell’appellativo che abbiamo usato e continuiamo a usare, “madrina”, c’è forse una responsabilità eccessiva, un onere gravoso. Chiamiamole testimonial o – ancora meglio – ally. Senza voler determinare alcuna retrocessione né ridimensionamento simbolico. Solo per fare ordine, per non chiedere più del dovuto. E per non far rientrare dalla finestra i modelli che cacciamo dalla porta.

Questo passo avanti potrebbe essere la contropartita del veleno che ha appannato l’orgoglio di questo secondo weekend del Pride Month (qui tutte le date e le città).

Paola Iezzi durante la conferenza di presentazione del Roma Pride prende posizione rispetto ad alcune dichiarazioni di Arisa, e Arisa si scatena con la ormai arcinota reazione via social. Lo scontro in realtà affonda le radici nel tunnel comunicativo che Arisa sta attraversando ormai da qualche settimana, da quando cioè è andata in onda la sua “confessione” a Peter Gomez sulla Nove. Una lunga chiacchierata, che ha fornito alla stampa (e all’opinione pubblica) diverse dichiarazioni. La prima: Meloni mi piace, è come una mamma severa e spaventata. Una che ha quattro figlie e che deve fare le cose che vadano bene a tutti. Gomez a quel punto la incalza sulla questione diritti LGBTQI+ e Arisa rompe gli argini:

“FAREMO il Pride a Milano e a Roma, però bisogna passare dalla lotta al dialogo. Bisogna avere pazienza e bisogna anche allargare la rappresentanza: le persone LGBTQI+  non sono solo macchiette, cose oscene, plateali, plug-in. Dobbiamo smetterla di spaventare e iniziare a dimostrare che siamo gente wow”.

Come se i diritti fossero non un presupposto, ma un premio per le persone wow. Un disastro, una Caporetto clamorosa che ha ritirato fuori dalla naftalina argomenti in voga nella seconda metà del secolo scorso.

Il sociologo Thomas diceva che se le cose sono definite reali saranno reali nelle loro conseguenze. Parafrasando, non serve spendere parole – qui e ora – per spiegare ad Arisa dove è piazzata la dinamite nel suo ragionamento. Serve prendere atto che la dinamite c’è, perché l’esplosione che ne è seguita è stata fragorosa. Lei ha cercato di correggere, smentire, rimediare. Ha sostanzialmente solo pasticciato, ma questi sono fatti di Arisa. È da lì in poi, invece, che la vicenda diventa nostra.

Nulla di grave, per carità, cose che succedono e che passano. Ma che nella rapidità diventano virali, passano sotto gli occhi di molt* e lasciano pensieri, retrogusti. Ecco perché forse qualcosa andrebbe detto sul conflitto tra madrine andato in scena sui social e sui mass media nella giornata del Roma Pride, su quanto contenesse aspetti violenti.

E magari chiederci se abbiamo avuto un ruolo e delle responsabilità in questa deriva. Senza giudicare, né dubitare della buonafede di tutte le protagoniste di questa vicenda. Solo per ragionare, registrare gli errori, mettere in circolo gli anticorpi.

In premessa va richiamata la funzione delle madrine dei Pride. Lo ha fatto benissimo su Instagram Geekqueer – al secolo Luca De Santis – ricordando che, nei primi pride italiani, quando nessuna testata giornalistica dava notizia dei pride, la disponibilità di una persona famosa, che mettesse la propria visibilità a servizio della manifestazione, era importantissima se non addirittura fondamentale. Ecco allora il senso e il compito di quel ruolo, che – diciamocelo – non merita né snobismo, né disprezzo, né alzate di spalle.

Dall’altra parte, però, resta la necessità di tenere fede a quella funzione, senza portare altrove la visibilità, una volta conquistata. E senza essere polo scatenante o cinghia di trasmissione di messaggi che replicano certe violenze (“hai quasi 50 anni”), che giudicano (“non hai self confidence”), feriscono (“hai paura di non lavorare”), stigmatizzano. Lo
chiediamo a loro, ma dobbiamo nel frattempo pretenderlo da noi stess*. Lo dobbiamo all’importanza delle nostre battaglie.

E se vogliamo dirla tutta, proprio perché le nostre sono battaglie importanti, dobbiamo preservarle da questi abissi e non buttarcele dentro. Ecco perché nominare come madrina una vittima di violenza non è il modo di elevare questa discussione, semmai quello che la manda in totale cortocircuito. Perché la vittima di violenza non detiene il potere sulla propria visibilità, la subisce totalmente. Quel riflettore puntato è parte di una sua esperienza drammatica, che avrebbe di certo evitato e che non le conferisce alcuna superiorità morale, solo tanta sofferenza. La violenza non ci migliora, è un nemico da combattere sempre.

Allora forse si esce dal pasticcio facendo semplicemente ordine nelle parole, alleggerendole da richiami inopportuni. Da una parte le ally, come Arisa e Paola e Chiara. Dall’altra le
persone lgbtqi+ che subiscono violenza. Che sono il Pride, e che il Pride avvolge con il suo abbraccio.

Vincenzo Branà

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