Non so se avete sentito parlare di Heartstopper.
Per chi non lo sapesse e avesse passato l’ultima settimana in una caverna ai confini della Terra, Heartstopper è la serie del momento: la più guardata su Netflix, con un clamoroso 100% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, che la rendono la serie più acclamata nella storia della piattaforma. Heartstopper è un’ode all’adolescenza queer, una storia d’amore tra due ragazzini che, sin dal primo minuto, non ha nessun timore a mostrarsi spudoratamente tenera, in una maniera così spontanea e naturale da non esagerare mai con il saccarosio.
Tratta dal graphic book di Alice Oseman – qui anche in veste di sceneggiatrice – Heartstopper è uno di quei rari, ma fortunatamente sempre più possibili, casi in cui una storia queer viene raccontata, interpretata, e vissuta attraverso la lente di persone queer, davanti e dietro lo schermo. E difatti si vede: le storie di questi adolescenti (per altro, una volta tanto interpretati da veri teen-ager e non trentenni fatti passare per quindicenni) sfuggono a quel desiderio spasmodico di rappresentarci attraverso il filtro della violenza, la tragedia, o il dolore. Le variopinte identità raccontate da Oseman – senza omettere tutte le difficoltà e insicurezze del caso – brillano disinvolte e libere senza giustificazioni o abbassare mai il capo. È esattamente la serie tv per rappresentare la generazione Z e quella che tutti gli altri non hanno mai avuto manco per sbaglio.
“Quanto avrei voluto una serie come Heartstopper quindici anni fa” è la frase che ho sentito ripetere di più dai millennial in queste settimane. Perché Heartstopper – piaccia o non piaccia – ha due effetti: da una parte, offre una una splendida e rassicurante visione della realtà, una scarica di serotonina per le persone più giovani, diventando un punto di riferimento rassicurante, e mi sento di dire indiscutibilmente necessario, per chiunque è ancora tra i banchi di scuola.
Dall’altra, per chi esce fuori dal target di riferimento, Heartstopper è una favola: è quel sogno ad occhi aperti mentre attraversavamo il cortile della scuola con le cuffiette, troppo impegnati a sentirci fuori posto e spaventati, per poterci permettere di baciare la nostra crush a ricreazione. Heartstopper è il ritratto di tutto quello che avremmo desiderato a quindici anni se solo avessimo avuto meno paura, più possibilità, e migliori esempi. Ci siamo scrollati di dosso le angosce dell’adolescenza, riprendendo piano piano tutto quello che abbiamo lasciato indietro quando eravamo ragazzini, eppure, la nostra storia d’amore adolescenziale resta possibile solo su uno schermo. Attraverso quest’ottica e contro ogni volontà, Heartstopper assume un retrogusto dolceamaro, in grado di spezzare qualche cuore.
Con tutte le gioie e i dolori del caso, Heartstopper ci permette anche di fare il punto su quanti passi in avanti abbiamo fatto nella rappresentazione queer, ma anche in quali direzioni possiamo iniziare a muoverci: fa bene sapere che lo show più guardato al mondo – in grado di coinvolgere chiunque, dai più piccoli a vostra madre – sia un tripudio di orgoglio e gioia LGBTQIA+.
Al contempo, non escludo che Heartstopper è il pacchetto perfetto per un pubblico etero-cis che può assistere alle nostre storie, senza sentirsi minimamente turbato o destabilizzato. Chiunque in questa serie è quanto di più edificante e accomodante possiamo aspettarci dal mondo queer: i personaggi sono i perfetti modelli di comportamento, privi di difetti, angelici e puri quanto basta per non fare incazzare nessuno. Con tutti i pregi del caso, si ha sempre la sensazione di essere qui per sensibilizzare, educare e normalizzare l’occhio dello spettatore medio, ma mai di esistere in tutta la nostra complessità, anche permettendoci di non essere carini a tutti i costi. Se una volta per raccontarci dovevamo farci corcare di botte o crepare prima dei titoli di coda, oggi dobbiamo essere adorabili, mansueti, dolci angioletti troppo buoni per trattarli male o discriminarli.
Come ho sentito dire da qualcuno, Heartstopper è abbastanza intelligente da non cadere a piene mani in questo stereotipo, ma allo stesso tempo non fa nulla neanche per discostarsene. E non posso fare a meno di chiedermi: e se fossimo meno carini? E se potessimo raccontarci con tutti i nostri spigoli, ruvidità, a volte anche disgustosi, crudeli, e problematici come buona parte degli esseri umani, riceveremmo la stessa calorosa accoglienza? Se smettessimo di essere buoni esempi, educativi come un’infografica su Instagram e teneri come dei coniglietti, si investirebbe ancora nelle nostre storie? Soprattutto, quando inizieremo a raccontarci senza ricalcare gli stessi schemi offerti dai media etero-cis per decenni?
Forse sto correndo un po’ troppo, ed è bene ricordare che ci stiamo ancora muovendo a piccoli passi, e prima o poi, ogni storia avrà il suo tempo. Forse mi spaventa la sensazione che per essere visti e accolti, dobbiamo ancora presentarci bene agli occhi del mondo, come se stessimo sempre chiedendo il permesso. Ma se quindici anni fa non potevamo essere neanche questo, chissà cos’altro potremo permetterci un domani. Forse anche il lusso di essere screanzati.
Leggi anche: Heartstopper, la recensione della serie queer Netflix: “Un dolcissimo amore tra due ragazzi ai tempi del liceo”
Gay.it è anche su Whatsapp. Clicca qui per unirti alla community ed essere sempre aggiornato.