"Un’arena per il teatro sessuale". Così il pittore Delmas Howe definiva i pontili newyorchesi sul fiume Hudson sotto la quattordicesima strada, luogo di cruising e naturismo prediletto dai gay negli anni Settanta fino all’esplosione della pandemia Aids dei primi Ottanta, diventate col tempo sede d’elezione di molte opere murali e fotografiche di vari artisti della nuova sottocultura queer. Questi lavori sono al centro della mostra "The Piers: Art and Sex along the New York Waterfront" curata da Jonathan Weinberg e Darren Jones, in programma fino a sabato 7 luglio presso il Leslie+Lohman Museum di Soho, al numero 26 di Wooster Street, una delle più importanti istituzioni americane dedicate all’estetica lgbt.
Luoghi fatiscenti e abbandonati, inutilizzati dagli anni Sessanta, quando il commercio navale si spostò verso Brooklyn e il New Jersey mentre si intensificava il trasporto aereo di cargo-containers transatlantici, i Piers sull’Hudson sono entrati nell’immaginario di un’intera generazione di gay newyorchesi come un eden post-industriale dove realizzare le proprie fantasie erotiche e dare forma e corpo al desiderio sessuale in luoghi tutto sommato sicuri.
Alcune opere dimostrano quanto fosse innovativa l’avanguardia queer, audacemente sperimentale nel contaminare le arti, come nelle fotografie di Stanley Stellar che nel 1981 fotografò i graffiti di Keith Haring a fianco di uno statuario J.D. Slater seminudo, divo hard dell’epoca, mentre il suo collega Peter Hujar, sullo sfondo, era impegnato in una performance hard. Oppure negli scatti quasi ‘rubati’ di Frank Hallam che sembra spiare da un buco gli oziosi ‘sunbathers’ che prendono la tintarella in coppia o ammassati come otarie sulle banchine di legno. Atmosfere di un mondo che ricorda gli emozionanti romanzi di John Rechy e Andrew Holleran, tra il decadente e l’elegiaco. Un artista italo-americano, Ivan Galietti girò persino un film sperimental-warholiano sul Pier 46, ‘Pompeii New York’, con un cameo del fotografo David Wojnarowicz e le musiche appassionate della grande fisarmonicista Phoebe Legere.
E le divinità della mitologia romana e greca sono evocate in un’ottica fallocentrica negli svariati murali che riproducono fattezze di uomini giganti iper-mascolinizzati (uno dei modelli feticcio fu tale Gustav von Will detto ‘Tava’, trasfigurato da Frank Hallam e Stanley Stellar in Dio titanico di un fantomatico Olimpo Archeologico).
Ma i Piers sull’Hudson non furono solo questo: uno in particolare, il 34, divenne persino una piccola Factory di artisti nel 1983 – già tra i ’70 e gli ’80 vi abitavano vari homeless e squatters – i cui leaders furono David Wojnarowicz e Mike Bidlo. Ribatezzarono la banchina ‘Ward Line Pier’, gettando le basi di una vivace comunità dedita alla libera creatività, quasi un’estensione della scena artistica dell’East Village.
Vi aderirono artisti quali Louis Frangella, John Fekner, David Finn, Judy Glantzman e Gordon Matta-Clarks. Quest’ultimo definì il luogo così trasformato “di interesse, fascino e valore”.
Anche il Pier 18 fu oggetto di particolare attenzione artistica: nel 1971, Willoughby Sharp, editor della rivista d’avanguardia concettuale ‘Avalanche’ invitò 27 artisti tra cui Vito Acconci, Dennis Oppenheim, Richard Serra e William Wegman a creare opere-performances personali, realizzate anche in poche opere o minuti, che sarebbero state documentate dal team fotografico di Harry Shunk e János Kender. Il risultato di questo esperimento artistico è visibile all’interno della mostra, imperdibile per chi ha l’occasione di recarsi nel “luogo in cui vorrei essere anche quando effettivamente ci sono già”, come Adam Gopnik definiva New York.
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