Efficienza milanese, unioni civili a cottimo: di come cambierà la nostra società

5 agosto 2016, Milano, Palazzo Reale. Prime unioni civili. Poca retorica. Molto pragmatismo. Cosa ha visto e pensato il nostro cronista.

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4 min. di lettura

Mi aspettavo di commuovermi e invece no*. Perché Milano non è fatta così. Ci prendono in giro perché siamo così. Che le cose se si devono fare si fanno. Punto. Non c’è tanto da stare a ricamarci sopra. Come quando prendevo un bel voto a scuola e mia mamma mi diceva che sì, bravo, ma hai fatto solo il tuo dovere. E così è stato un po’ ieri quando ho visto coi miei occhi la prima unione civile meneghina, zona centralissima, Palazzo Reale, grande evento con Madonnina aggettante.

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Vento più triestino che meneghino e cielo grigio Prada, si arriva lì con lombardissimo anticipo, che non si sa mai. E si fa anche bene perché il Beppe Sala spacca il secondo. Ci accoglie l’indicazione ‘Sala dei matrimoni e delle Unioni Civili del comune di Milano’. In un Sans Serif tutto capital che sembra molto azzeccato, traducendosi letteralmente in italiano come carattere senza grazie. Senza fronzoli, come la città. La deformazione professionale riconosce un Helvetica, modernismo svizzero di Max Miedinger, calvinista, giacobino, anche quello come la città. Del fare.

Cronisti d’assalto ma garbati fumano Marlboro annoiate nel cortile. C’è da aspettare la fine di un matrimonio che oggi pare davvero vecchio stile tra giovanotto italiano e signorina giapponese decisamente overdressed. Lei abito lungo ma soprattutto largo, tutta una rouche, meringata orientale.

L’atmosfera si scalda di botto con l’arrivo delle future spose. Invero l’intenzione delle nostre pareva essere un intimo understatement ma c’è poco da fare, sono le prime a domare questa bestia nuova ma per nulla rara delle Unioni civili dato che si scoprirà in seguito essere già 350 quelle prenotate al comune.

Abiti decontracté per entrambe, un filo di orchidee in mano. Chic che non impegna. Belle e decise, quest’unione s’ha da fare, quindi poche balle. Si concedono alla stampa lo stretto necessario. Non hanno grandi dichiarazioni da fare, e il loro sottrarsi sembra proprio voler dire ‘il grande passo è dell’umanità, non state a concentrarvi troppo su noi due che qualcuno doveva pur farlo per primo’.

Loro entrano e subito dopo il blob mediatico sembra rispondere al grido inconscio di un fianco dest’. Si girano tutti, noi spaventati cronisti ci si mette un attimo a capire che sta arrivando Beppe Sala. Il Blob lo inghiotte e lo risputa in circa un minuto, lui secco, due parole sulla città che sta solo proseguendo in quello per cui si è sempre battuta: l’uguaglianza. Poi avanza il passo, ha da fare, ha da sposare, o unire, o celebrare o quel che l’è. Da buon primo cittadino anche lui è senza grazie, non sta a guardare il pelo nell’uovo linguistico. Durante la cerimonia dichiarerà o si lascerà scappare uno ‘scusate, sono un po’ emozionato anch’io, è il mio primo matrimonio da sindaco’. Che chi scrive, inguaribile sognatore, ha preso come un endorsement verso il matrimonio egualitario. Beppe compagno nella lotta. Forse più semplicemente è ancora una volta la classica vis milanese, demistificare e tirarsi su le maniche: quante palle con ‘ste Unioni Civili, non potevamo sposarli tutti e basta? Avremmo ottimizzato.

Beppe legge la formula di rito, la sposa sulla destra ha un impercettibile cedimento: scende la lacrima e si scusa col sindaco. Sala Master of Ceremony non si lascia scappare il momento e tira su l’uditorio per un attimo inebetito dalla musica di Enya in sottofondo e se ne esce con un ‘la sposa è lei, ci mancherebbe, faccia pure’.
Il rito dura una cosa come due minuti e mezzo, tre, inclusi scambi di anelli e bacio. Grandi applausi, gioia, abbracci. Sempre Sala: ‘festeggiate ma ricordatevi di firmare, che altrimenti non vale mica’ e poi regala un libro sulle bellezze di Milano ‘così vi ricorderete di me, e io sicuramente mi ricorderò di voi’.

Al primo matrimonio ma già mattatore.

Le spose escono, avanti i prossimi.
Noi, capito l’andazzo cannibale degli altri giornalisti non si molla la tanto agognata postazione vicino al tavolone burocratico e non le si segue.

Arrivano i futuri sposi. Giovani, belli e anche loro così meravigliosamente normali.

Abito grigio a tre bottoni e cravatta verde pallido (come per la musica di Enya di prima, non si può avere tutto) per entrambi. Scarpe derby senza calze, secondo chi scrive il brusco calo di temperatura li ha colti impreparati.

Beppe riprende le redini, e fa notare che oltre a lui è presente tutta la giunta, che ci teneva ad essere lì. A dare il messaggio di essere lì. E infatti in seconda fila Majorino, Maran e tutta la squadra fortissimi recentemente rieletta.

E poi di nuovo il rito, due minuti, tre coi baci e gli anelli.

È gia una noia.

È già banale.
È già proprio come dovrebbe essere, una gran rottura di palle.

È già orribilmente, stupendamente normale.

E vien da pensare che l’obiettivo è stato raggiunto davvero.

Certo c’è ancora tanto da fare, e non sciogliamo i ranghi e vogliamo solo e soltanto il matrimonio egualitario. Certo. Io per primo. Tutti quanti.
Però insomma un sospiro di sollievo viene da tirarlo, che fin qui tutto bene.

Mentre stiamo uscendo si sente una non specificata addetta ‘mo’ ce n’ho uno alle tre, uno alle tre mezzo e uno alle 4′.
Efficienza milanese, unioni civili a cottimo. Lavoro, unisco, spendo, pretendo.
La strada sembra aperta e non si può tornare indietro. E passata l’hype arriveranno anche per noi momenti finora tipicamente etero. Gli inviti nella cassetta della posta aperti come fossero cartelle di Equitalia. I weekend al mare saltati perché si sposano Marco e Stefano. I pranzi lunghi, cattivi e pesanti e tutto il resto del carrozzone.

Finite cerimonie e foto e frizzi e lazzi ci si dirige verso l’uscita felicissimi ma anche adombrati da questo melodrammatico scenario borghese e si incontra Felix Cossolo (LEGGI la sua rubrica sulla Storia del movimento LGBT italiano > >) che non si sa con quale spunto ci racconta di quando, negli anni 80, aveva intrapreso questo business casalingo di accessori leather su misura richiestissimi: cockring, harness, chaps e tutto il cucuzzaro. Ed è come una boccata d’aria ristoratrice. Perché tutto questo potrà convivere in un mondo dove ognuno potrà finalmente scegliere la propria deliziosa perversione, anche la più spaventosa di tutte: sposarsi.

*L’informazione era falsa e servile al tono dell’articolo. Ho pianto ad ogni sì pronunicato dalle spose e dagli sposi.

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Matteo Volontieri 11.8.16 - 9:56

Che articolo gente!

    Avatar
    Giovanni Di Colere 15.8.16 - 16:02

    Lo trovo ottimo anche io. Erano anni che un articolo non mi faceva vedere neuroni funzionanti.

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Domenico Di Chio 7.8.16 - 13:37

tutto normale. Non affliggiamoci... Così dev'essere: "omosex" non è sinonimo di trasgressione

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Giovanni Di Colere 7.8.16 - 11:41

Palazzo reale proprio di fronte al duomo così il ciellino cardinale scola rosica omofobo.....

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