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Nell’interessante biografia scritta da Sylvia Nasar su John Forbes Nash, il matematico schizofrenico esperto di Teoria dei Giochi scopritore dell’equilibrio omonimo, vincitore di un Nobel per l’economia e interpretato sullo schermo da Russell Crowe in ‘A beautiful mind‘ di Ron Howard, risulta in maniera evidente che Nash era perlomeno bisessuale. Ma nel film non ve n’è traccia.
Nel libro si racconta invece che i compagni di college lo chiamavano ‘Omo’ e ‘Nash-mo’ per le sue evidenti preferenze sessuali e che un giorno, trovatosi con alcuni ragazzi nei sotterranei dell’istituto esclamò: "Se rimanessi intrappolato quaggiù potrei diventare omosessuale".
Inoltre risulta che tentò avances non corrisposte nei confronti del compagno di stanza Paul Zweifel infilandosi di notte nel suo letto.
In una lettera alla sorella rivelò che "in vita sua solo tre individui con cui aveva ‘amicizie speciali’ gli avevano procurato un po’ di vera felicità".
Ebbe la prima esperienza di attrazione reciproca a Santa Monica quando, ventiquattrenne, si innamorò ricambiato del californiano di origine scandinave Ervin Thorson, detto ‘T’ (e la loro storia durò ben 13 anni, dal 1952 al 1965). Fu addirittura arrestato per atti osceni nel 1954 in un bagno di Santa Monica a Muscle Beach, tra il molo e la comunità di Venice, una località nota perché principale luogo di ritrovo gay nell’area di Malibu Bay (e probabilmente gli fu tesa un’imboscata da parte della polizia).
Questo arresto gli causò persino l’espulsione dalla Rand Corporation dove lavorava.
Ma nel film l’unico, impercettibile accenno all’omosessualità si può vagamente intuire a un party, quando due ragazzi lo osservano ambiguamente mentre lui guarda la schiena di Alicia, sua futura moglie. Per il resto niente. Censura? Il regista Ron Howard dice di aver ignorato il lato omosessuale della personalità di Nash per non creare associazioni con la malattia mentale e perché a tutt’oggi – Nash è un arzillo settantatreenne ormai guarito dalla schizofrenia – lui nega di essere omosessuale, ma tant’è. Sicuramente il profilo dell’uomo/genio risulta abbastanza snaturato (e infatti le associazioni gay americane hanno protestato vivamente). Anche perché fisicamente il gladiatore Russell Crowe, ‘macho’ e possente, non corrisponde molto alla descrizione fatta della Nasar che parla sì di "spalle larghe e torace muscoloso" ma anche di tono della voce "che tendeva a essere alto, quasi stridulo" e di "aspetto da aristocratico inglese, i capelli gli ricadevano sulla fronte e lui li scostava di continuo".
E queste non sono le sole libertà che si prende il regista, poiché ignora uno dei due forti legami con donne della vita di Nash – e la nascita di uno dei due figli – nonché il secondo matrimonio sempre con la stessa donna, Alicia, che nel film è una bellissima (e quasi santificata) Jennifer Connelly. Dopotutto questa è Hollywood e se il film ha avuto otto nominations agli Oscar, ha vinto 4 Globi d’Oro è anche perché si inserisce nella corrente molto ordinaria dei film classici, ben fatti e corretti che pigiano con equilibrio sui pedali della commozione, del trinomio agiografico genio-malattia-guarigione, della morale edificante e ammorbidita. Non si può poi certo dire che Crowe non reciti bene o che la sceneggiatura non giochi abilmente le sue carte (l’idea che le allucinazioni possano essere reali è gestita benissimo per tre quarti del film) ma il sospetto di opportunistiche manipolazioni della tipica ‘storia vera’ è fin troppo evidente e molte interessanti asperità del racconto – soprattutto quelle riguardanti la malattia mentale – troppo smussate o semplificate.
Ed è un peccato che il Nash omosessuale non sia così reso noto al grande pubblico anche perché sarebbe stato un doveroso omaggio ai molteplici grandi matematici gay (da McKinsey ad Alan Turing) spesso ignorati da distratti cinebiografi.
Altro che omomorfismi.
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