D’Incau: fate coming out perchè ha successo chi è veramente se stesso

Il famoso head-hunter, coach e blogger milanese si racconta. E su Roberto Bolle dice...

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Roberto D’Incau è uno dei più famosi cacciatori di teste italiani, a capo di Lang&Partners e specializzato nel mondo della moda. E’ anche un noto coach, scrittore di libri di successo e blogger. Conosce a fondo il bel mondo milanese ma è stato un caso che l’intervista a Roberto sia avvenuta proprio il giorno dell’outing di uno dei milanesi più noti al mondo, Roberto Bolle. Ed è stato un caso che questa intervista vertesse anche sul coming out nel luogo del lavoro. Eccola.

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Chi è Roberto D’Incau?
Sono un head-hunter, cioè un cacciatore di teste, specializzato nel mondo della moda e del lyfestile. Sono anche un coach. Molti mi conoscono per questa mia attività professionale, ma altri anche per i tre libri che ho scritto negli ultimi anni: dei “saggi pop”, come li amo definire, con cui ho affrontato temi della società italiana con un taglio ironico. Il primo, “Il lato bimbo – come ritrovare l’entusiasmo nella vita e nel lavoro ”, che per l’appunto parla della passione e del gioco.

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Ti posso chiedere se sei omosessuale?
Ho fatto una vita molto variegata: ho avuto grandi amori, di sessi diversi, in fase diverse della mia vita e rivendico questa libertà che ho avuto da sempre. Ho avuto donne in passato, da vari anni ho un compagno. Ho una figlia di venti anni, tra l’altro, che conosce perfettamente questa mia dimensione.

Partiamo allora dal tuo settore di riferimento, il mondo del lavoro. Quale è, guardandola dal tuo osservatorio privilegiato, la situazione delle persone LGBT nel mondo del lavoro?
Ne ho parlato a luglio nel mio blog su Vanity. Inizio dalle cose positive. La mia opinione è che sicuramente nel mondo del lavoro italiano c’è stato un netto miglioramento sia del livello di coming out, sia del comportamento delle aziende che oggi sono mediamente più inclusive. Io faccio l’headhunter da 15 anni e all’inizio mi è capitato di avere colleghi che segnavano nei dossier chi era palesemente omosessuale: oggi per fortuna questa cosa terribile non esiste più. Quello che devo dire però è che rimangono grandissimi distinguo: se ad esempio nel mondo della moda, che è quello che seguo, l’orientamento sessuale è ormai assolutamente indifferente, mi posso immaginare che in altri settori non sia così. Questo vale anche per le donne però: in generale le politiche di diversity in Italia non sono certamente all’avanguardia.

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E’ importante fare coming out sul mondo del lavoro? E perché?
Io penso che sia molto importante. Innanzitutto perché questo paese deve evolversi. Ma anche perché c’è un impatto sui colleghi: creare tutta questa cortina fumogena sul proprio orientamento sessuale mette a disagio tutti, non solo l’interessato. Il risultato finale, se non c’è coming out, è a volte davvero disastroso: bisogna buttare alle ortiche tutto questo!

Cosa è che impedisce a molti di farlo?
In questo paese c’è una pruderie fortissima legata alla mancanza di laicità. Bisogna costruire una sorta di “via italiana alla laicità”, prendendo spunto anche da altri paesi. Rispetto il comportamento e anche il grado di maturazione di tutti: non siamo tutti uguali né tutti nella medesima fase della nostra vita. I nostri comportamenti, messi tutti insieme, hanno però un impatto molto forte sulla società: la vicenda di oggi di Roberto Bolle lo insegna, anche se non mi piace minimamente la modalità con cui è stata messa in atto.

C’è ancora un pezzo sempre più minoritario della comunità gay italiana che dubita dell’importanza del coming out…Che ne pensi?
Rispetto i diritti di tutti però la cortina fumogena che ciascuno costruisce se vuole nascondere il proprio orientamento sessuale sul lavoro, è un apparato di una complessità tale che in alcune persone rasenta la schizofrenia. La cosa bella è la pienezza dell’identità: ha successo chi è veramente se stesso. La piena espressione di tutte le parti che noi siamo è un passaggio indispensabile per renderci felici e per porci in un’ottica completa verso gli altri.

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Cosa consiglieresti a Roberto Bolle, anche se in questo caso ha più senso parlare di un “outing”?
Come dici tu nel tuo editoriale , fare coming out è una cosa delicata e personale: non posso quindi condividere chi ha sbattuto in prima pagina queste immagini, anche se riprese in un luogo pubblico. A Roberto Bolle posso solo consigliare che a questo punto lo dica che è gay: forse ormai farebbe bene a farlo. Occorre essere infatti rilassati verso quella che non è neppure una scelta, ma una identità che non si può certo negare.

Quanti Roberto Bolle ci sono nel bel mondo milanese?
Grazie al cielo ci sono tante persone assolutamente dichiarate e rilassate tra i VIP milanesi. La vera difficoltà non è per loro, dove forse fa quasi chic essere bisessuali o gay, così come è di moda andare dallo psicanalista, ma per chi fa il pescatore in Liguria o il contadino in una provincia siciliana o l’operaio in Toscana. In questi casi oggettivamente è ben più difficile. Ci sono sicuramente designer, attori e stilisti che quando li vedo su qualche rotocalco con la sedicente fidanzata di turno trasecolo, perché pure i muri sanno che hanno un compagno da diversi anni. Questi comportamenti li trovo davvero poco contemporanei: non possiamo vantarci di essere europei quando ci fa comodo ed invece essere antistorici come in questi casi.

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Ai tanti omosessuali che vanno lavorare all’estero per avere molte più opportunità ma anche, in alcuni casi, per vivere in pieno il loro orientamento sessuale, cosa diresti? E’ in fondo la scelta, se parliamo di coming out famosi, che fece Tiziano Ferro andando ad abitare a Londra per molti anni…
Credo che ormai l’ottica professionale debba essere un po’ europea: se io avessi oggi 25 anni e fossi neolaureato, di fronte alle scarne offerte di stage poco retribuiti in Italia, prenderei subito i bagagli e mi trasferirei a Londra o in Svizzera. Però dico anche che l’estero c’è già un po’ in Italia: Milano in questo è una città europea e non solo nel mondo della moda. E’ anche un po’ triste pensare di essere se stessi solo altrove: uno deve essere se stesso ovunque, anche e specie con le persone più care. Su questo sono ormai molto intransigente verso posizioni morbide: bisogna smettere di pensare che certe cose non si possano dire.

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Esiste quindi secondo te una sorta di responsabilità individuale nel fare coming out?
Noi italiani abbiamo un po’ questa mentalità: abbiamo case ordinate e pulite, ma quando usciamo per strada buttiamo la carta per terra intanto c’è chi spazzerà. Abbiamo un rapporto col “pubblico” storicamente molto meno sensibile rispetto ad altri paesi. Di fronte a questo calpestare i diritti di base delle persone, forse se qualcuno in più scendesse in piazza, magari queste battaglie inizierebbero a essere prese più sul serio di ora. Tornando alla tua domanda, ti rispondo di sì: sono convinto che la somma di tanti comportamenti individuali responsabili può essere davvero una rivoluzione. Per un’Italia meno bacchettona ed anche meno finta.

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