Nonostante alcuni personaggi, soprattutto politici, che ancora remano contro la comunità LGBTQ+ (tra cui anche alcuni che ancora sostengono le terapie di conversione), le discriminazioni contro le persone queer in Australia sono diventate illegali su base federale a partire dal 2013. Le pene vanno da onerose multe fino alla reclusione, qualora le offese assumano forme che violino la dignità di una persona o sfocino nella violenza. Non tutti però erano d’accordo con la legge e, da allora, ci sono stati diversi tentativi di aggirarla e sabotarla.
Sembra esserci riuscito il primo ministro Scott Morrison, notoriamente anti-LGBT, che la scorsa settimana ha introdotto una nuova legge dal fatidico nome Religious Discrimination Bill. Non è una novità che tra le principali cause della discriminazione, la religione gioca un ruolo importante. Ecco allora che la nuova legge permetterà alle organizzazioni che si basano sulla fede religiosa, come chiese, scuole e anche luoghi di lavoro, di ignorare e scavalcare le leggi anti-discriminazione. Questo purché il loro credo «non minacci, intimidi, perseguiti o diffami una persona o un gruppo», sia ben chiaro. Sarebbe forse il caso di far ripassare al primo ministro il concetto di discriminazione, ma questa è un’altra storia.
Il motivo che si celerebbe dietro questa proposta di legge è lo spettro della cancel culture, che Morrison ha così spiegato: «Molte persone provenienti da varie tradizioni religiose sono preoccupate per la mancanza di protezione religiosa contro la prevalenza della cultura della cancellazione nella vita australiana». Preoccupazione che potrebbe essere più che valida, il che però non significa avere improvvisamente il diritto di nascondersi dietro un credo per attaccare liberamente un’intera comunità.
«Le persone non dovrebbero essere cancellate o perseguitate o diffamate perché le loro convinzioni sono diverse da quelle di qualcun altro»
Niente di più vero, e sulla carta potremmo essere anche d’accordo, se non fosse che l’impeto di libertà di opinione celi un vero e proprio via libera alle discriminazioni. Insomma, perché adoperarsi per una dovuta legge che le preverti se poi viene creato il modo per renderla quasi nulla? Il primo ministro ha poi continuato: «Gli australiani non dovrebbero preoccuparsi di guardarsi alle spalle, avere paura di offendere una persona anonima su Twitter o trasgredire gli spiriti del tempo politici e sociali».
E qui la domanda sorge spontanea: e invece quegli australiani che dovranno davvero guardarsi le spalle da chi può discriminarli apertamente? Due pesi e due misure, verrebbe da dire. Inoltre, la legge sulla discriminazione religiosa – il cui titolo è già abbastanza eloquente senza ulteriori spiegazioni – permetterebbe di attaccare non solo la comunità LGBTQ+, ma anche tutte le minoranze etniche e sociali e le persone con disabilità. Il tutto arriva quando la parte conservatrice del governo ha lanciato anche un’indagine per verificare se il matrimonio tra persone dello stesso sesso, legale dal 2017, costituisce una restrizione della libertà d’espressione dei gruppi religiosi.
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I gruppi di attivisti hanno lanciato un grido d’allarme, preoccupati da come la nuova legge permetterebbe alle persone di fare affermazioni dettate dalla fede sprezzanti, offensive e dannose, senza nemmeno la possibilità per le vittime di difendersi. Potremmo arrivare a vedere cose come «un operatore medico che dice a una persona malata di HIV che l’AIDS è una punizione di Dio, o a una persona diversamente abile che la sua disabilità è causata dal diavolo», ha sottolineato Anna Brown, la presidente del gruppo Equality Australia.
«La proposta di legge del governo Morrison fallisce su tutti i fronti», è stato il riassunto degli attivisti. Un fallimento che rischia però di riportare l’Australia indietro non di uno, non di due, ma di cento passi.
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