Poche ore fa, dopo aver ricevuto il Premio Fuori! 2023 per la raccolta di racconti Tutti i nomi di Ercole (Rizzoli), Walter Siti ha detto: «La scrittura è la cosa più importante». Lo ha detto con convinzione e aggiungendo che, per lui, scrivere viene prima di tutto, persino prima degli affetti più cari. Una frase che la senti e poi ci pensi a lungo, ci pensi sempre. Una frase che la senti e allora poi capisci tante cose del suo scrivere mai stanco, di quella lingua sempre infiammata, sempre lucida, sempre svelta.
In occasione del Salone del Libro di Torino, qualche minuto prima che ritirasse il premio, abbiamo incontrato Walter Siti, gli abbiamo fatto le nostre congratulazioni e subito dopo i nostri auguri di compleanno, lui ha sorriso e ha detto: «ah sì, grazie». Abbiamo parlato di Ercole e di tutte le sue fragilità, del corpo del maschio che non ha mai smesso di infestare la sua scrittura. Il maschio culturista e puerile, il corpo rotondo, ipertrofico e insieme femmineo, mitologico eppure fragilissimo. È fatto così il maschio che ossessiona Walter Siti e riempie tutte le sue pagine: è ambiguo. Poi il Fuori!, Blaise Pascal, Franco Grillini e il PC, le pin up e Sandro Penna, la regina Onfale e Angelo Pezzana.
Cosa prova a ricevere un premio intitolato al Fuori! e al nome di Sandro Penna?
Il Fuori! è un giornale che ho conosciuto quando è nato, nei primi anni Settanta. L’ho conosciuto grazie a due persone che vivevano a Montemagno di Calci, vicino a Pisa. Erano due radicali e mi hanno fatto conoscere sia il giornale sia Angelo Pezzana. Io avevo già fatto coming out nel 1968, ma era rimasta una cosa personale. Il passaggio a una realtà politica, in parte militante, l’ho elaborato proprio quando ho conosciuto questa dimensione. Questo premio mi riporta a quegli anni lì, gli anni in cui cominciavo a venire fuori. Erano anni in cui sembrava che bastava essere omosessuali per essere interessanti, poi abbiamo visto molti omosessuali non interessanti e ci siamo accorti che non bastava. Sandro Penna è un poeta che amo moltissimo. Ricordo sempre i suoi quattro versi decisivi: beato chi è diverso essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune. La diversità vera è la diversità dalla diversità. Bisogna sempre essere diversi dai diversi.
Abbiamo usato poco fa la parola militanza. Qual è il suo rapporto con la militanza? Com’è cambiato negli anni?
Per quello che mi riguarda, la militanza è passata da molto tempo. Quando ho iniziato a scrivere seriamente i miei libri, quel tanto che ci potevo mettere nel tentativo di capire il mondo lo mettevo nei miei libri. C’è stato un momento in cui, quasi in concomitanza con il Fuori!, il Partito Comunista mi ha chiesto di presentarmi alle elezioni. Volevano il gay in casa. In quell’elezione – credo – poi fu eletto Franco Grillini. Io in quel momento decisi che avrei voluto fare il mio lavoro e seguire la mia letteratura, invece che fare politica.
E la letteratura può essere militante?
La letteratura, in un certo senso, non può fare a meno di essere militante, perché anche se scrivi una cosa, o molto personale o molto favolistica, non puoi fare a meno di dire qual è il tuo punto di vista sulla realtà. Nei miei romanzi, oltre a parlare di me e dei miei desideri, parlo di ambienti che ho conosciuto, tipo la televisione, l’università, la finanza. La cosa che mi dà fastidio è la letteratura che parte con l’idea che l’unico scopo sia fare da altoparlante all’ideologia. Così la letteratura diventa superficiale, perché dev’essere sempre molto semplice, deve evitare le ambiguità senza le quali neanche esisterebbe. Non si tiene neanche conto del fatto che quando si inizia a scrivere non si sa cosa salterà fuori. Ci sono momenti in cui siamo passivi di fronte alla scrittura, non sappiamo l’esito e dunque non possiamo programmare se quello debba essere un intervento politico, oppure no. Quando la militanza diventa un progetto e viene prima della scrittura, indebolisce le capacità della scrittura, perché non gli permette di fare tutto quello che può fare.
Il rischio, insomma, è che si appiattiscano un po’ le contraddizioni che dovrebbero essere il centro della letteratura, quella complessità che dovrebbe essere portata alla luce dal letterario un po’ si perde, no?
Ci sono due modi di intendere la letteratura. Uno, che pure è dignitosissimo, illuminista, che vuole modificare le storture del mondo. Lo può fare con l’ironia, con il sarcasmo, facendo parlare gli stupidi e facendoli sputtanare con le loro stesse armi. Ci sono cose bellissime fatte in questo modo, però devono essere cose che sappiano esattamente cos’è il nemico. Per esempio, nelle Lettere provinciali, Pascal fa parlare per pagine e pagine i gesuiti, che dicono delle tali enormità che alla fine uno capisce che è meglio prendere un’altra strada. Poi c’è una letteratura che ha come scopo scavare nel buio, andare verso le proprie zone oscure. Una letteratura che assomiglia al lavoro psicanalitico. Queste due cose sono difficili da combinare insieme: o prendi una direzione o l’altra. Quello che mi dà fastidio è quando si cerca di contaminarle, scegliendo temi che vanno di moda e mettendoci insieme roba personale. Così si gioca sporco.
Con Tutti i nomi di Ercole lei è tornato a occuparsi della sua ossessione: il corpo del maschio. In questo periodo storico in cui la maschilità è giustamente riscritta e messa in discussione, cos’è un maschio? È possibile parlarne come se ne parlava vent’anni fa?
Rimettendo insieme questi racconti e scrivendo la prefazione, mi sono accorto che in realtà questo maschio che mi ha sempre attratto non esiste, è una specie di invenzione che mi sono fatto io. È molto meno virile di come si pensa. Da una parte ha le stesse curve che avevano le pin up e le maggiorate di quando ero ragazzo: pettorali molto rotondi, glutei molto rotondi, vita stretta. Sono anche un po’ trans, come fossero delle donne senza organo sessuale femminile. Poi c’è una parte di competizione maschile, come quella degli animali. Quando due animali maschi si scontrano, il primo che porge il didietro ha perso. Ci sono tutte queste parti: una machista, una femminile, una transgender. Sono molto strani, questi maschi che mi attraggono. Maschi che hanno molte fragilità interiori. Per me è molto facile dire che nessuno di questi uomini mi ha amato, perché in genere erano rapporti mercenari. È meno facile dirmi che non ho mai amato nessuno di questi uomini. Se li avessi amati davvero, non li avrei lasciati perdere quando il loro corpo decadeva. Gli sarei stato accanto e non li avrei lasciati diventare quello che sono diventati. Molti sono diventati fascisti, di parlarci non ho più quasi voglia. Perché li ho lasciati andare? Perché nel profondo non gli volevo abbastanza bene. Li usavo come pretesti, come attaccapanni sopra i quali attaccavo le mie fantasie mitologiche. Una volta che loro non rappresentavano più esattamente quell’incarnazione, passavo a un altro. È un modo molto violento di trattare le persone.
Perché proprio Ercole? Cosa c’è nel corpo di quel semidio che la ossessiona?
Da un lato, la rotondità. Da quando ero bambino sono sempre stato attratto dalle cose molto rotonde. Ancora adesso in casa ho una collezione di sfere, di marmo e pietre dure. Credo di averne un centinaio. Le ho raccolte nel corso degli anni, nei miei viaggi. Tenere in mano una sfera mi dà una specie di godimento anche sensuale. L’idea di un corpo fatto di sfere mi attira molto. Mi attraggono anche le persone con un carattere molto debole, malleabile, quelli che rispetto alle donne sono molto passivi, con elementi di fragilità molto forti. Lì il mito di Ercole funziona, perché nel mito di Ercole non c’è soltanto quello delle fatiche, l’uomo più forte del mondo, ma c’è anche un uomo che quando è stato condannato a fare da servo alla regina Onfale, fila la lana e si fa vestire da donna, confondendo un satiro che così vuole possederlo. Ci sono tutti una serie di elementi che vanno nella direzione dell’ambiguità.
Grazie.
Dobbiamo andare.
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