Coming out, le parole per dirlo e la lingua che non aiuta

Oggi 11 ottobre è la Giornata Internazionale del Coming Out: con quali parole possiamo esprimerlo?

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Se è vero, come è vero, che la lingua fa parte della nostra identità, definisce chi siamo – per molti in positivo ma per alcuni anche in negativo – e crea un ponte con le nostre radici, allora anche la lingua è un altro modo per parlare di noi stessi. Lo facciamo in continuazione, anche se spesso ci rendiamo conto di quanto conti per noi la nostra lingua madre solo quando non possiamo usarla, quando siamo all’estero, per esempio. Lo sanno bene le famiglie che hanno lasciato i loro Paesi natale per trasferirsi altrove, in un luogo di cui magari non conoscono le parole che si usano per comunicare e che devono imparare. La lingua madre diventa allora riservata alle mura di casa, un tesoro speciale per i membri della famiglia in cui ritrovarsi sempre.

Ci sono però anche momenti in cui il linguaggio, qualunque esso sia, fallisce. Non è sempre facile comunicare le proprie emozioni, raccogliere in pensieri e frasi ordinate in modo che abbiano senso anche per chi ci sta ascoltando. La cosa può sfuggire di mano, si corre il rischio di essere fraintesi. Non è sempre facile parlare con gli altri, soprattutto quando noi stessi non abbiamo ancora ben chiaro cosa vogliamo dire o abbiamo paura della loro reazione. Vale per le confessioni, quelle davvero serie, e vale per il coming out che, per come molti nella società lo concepiscono, è una sorta di confessione a modo suo.

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Lingua e coming out: non sempre vanno di pari passo

In verità il coming out non è una confessione. È più un rendere partecipi gli altri, chi ci sta intorno, le persone a cui teniamo di più, di una parte di noi stessi che abbiamo accettato (qualora ci fosse stato il bisogno di accettarla). Ha molto più a che fare con la libertà personale – la libertà di dire “io sono questo” senza preoccuparsi del giudizio degli altri -, anche se il termine fa più pensare a una rivelazione dovuta.

Lingua e coming out. Due termini che in apparenza vanno di pari passo: dobbiamo esprimere qualcosa per fare coming out, dire parole che per un momento – e poi per un’intera esistenza – ci descrivono e ci rappresentano. Eppure, per tantə non è sempre così. Il coming out può avvenire in diversi modi. C’è chi prende i genitori e si siede sul divano di fronte a loro per iniziare una lunga conversazione, chi invece prende il giro largo e lo fa a piccole dosi di tanto in tanto, chi usa dei gesti o chi invece non lo fa proprio perché sarebbe drenante, quasi un trauma. Quest’ultimo, in particolare, in tutti quei luoghi in cui l’omosessualità è illegale e anche dirlo alla propria famiglia sarebbe un rischio.

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Il coming out ci fa dire “Io sono”, ma non sempre abbiamo le parole giuste

Ma in alcuni casi il coming out può diventare difficile perché mancano le parole per farlo. E, innanzitutto, quali sono le parole che usiamo per fare coming out? I tempi sono relativamente cambiati, il Pride che cantiamo ogni giorno è anche indicativo di come ormai la maggior parte delle persone dica “Sono gay” o “Sono lesbica” con orgoglio. Solitamente, se quello per cui ci siamo preparati è un discorso, si inizia con «Devo dirvi una cosa», occasionalmente qualcuno ci aggiunge un tono un po’ sommesso o da scuse, per anticipare una temuta reazione negativa che potrebbe anche non arrivare. E poi, la fatidica confessione: «Sono…». A volte, però, non ci sono altre parole a seguire.

«Una parola che, esistendo, dà il permesso di essere. Cosa succede se si ha bisogno di ciò che non esiste nella propria lingua?»

Lo scriveva Yoojin Grace Wuertz, scrittrice coreana, in “Mother Tongue”, un bellissimo saggio sul concetto di lingua madre pubblicato qualche anno fa sulla rivista Guernica. È un problema fare coming out quando non ci sono parole che si possono mettere a seguito di quel “sono”. Non per noi, fortunatamente. L’italiano le parole omosessuale, lesbica, transessuale e così via, le conosce da tempo. Ma ci sono lingue, invece, nel mondo, che ancora non hanno una parola per questi termini.

Il primo caso, forse quello più noto, è il vietnamita, che non ha una parola per dire gay. Il termine che si usa è “bê đê”, che in modo molto generalista sta a indicare qualsiasi cosa che non sia “eterosessuale”, solo in modo molto negativo (simile al nostro “frocio”). Ci sono anche “ô môi” e “đồng tính” a indicare lesbica e gay, anche se un po’ più vaghi, più simile a “amore tra lo stesso sesso”.

In Hindi, c’è un termine letterario che significa essere attratti dallo stesso sesso, ma è talmente formale che la gente non lo conosce. Diversi studi hanno trovato che sono soprattutto le lingue asiatiche a non avere tutti i termini nel loro vocabolario. Nel mondo arabo gli attivisti queer stanno inventando nuove parole per descriversi, una volta capito che quelle che offriva la loro lingua non erano adatte. E la cosa più bella è che si tratta davvero di parole del tutto nuove, non versioni “arabizzanti” delle parole inglesi che già conosciamo.

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Cosa succede quando non abbiamo una parola per descrivere chi siamo?

Questo non succede per l’italiano, fortunatamente, ma se ci pensate bene nemmeno noi abbiamo tutte le parole. Forse a questo punto nessuna lingua le ha. Coming out non viene mai tradotto, usiamo tutti il termine inglese, il più delle volte perché è più facile e in italiano suona molto peggio. Il letterale “uscire dall’armadio”, se si prende l’intera espressione “coming out of the closet”, beh… non suona benissimo. “Uscire allo scoperto” fa sembrare il tutto sommerso in un film di spionaggio, molto lontano dalla vita vera; “venir fuori” mi fa sentire come se stessi giocando a nascondino. Non sono sicura, ma credo che quasi nessuna lingua traduca “coming out”.

La lingua è parte della nostra identità, lo abbiamo già detto e lo si sente spesso anche ripetere – in parte e soprattutto da quei conservatori che contro la perdita della lingua nazionale inneggiano contro gli idiomi degli atlantisti, gli Stati Uniti per intenderci. Non lo dico in quel senso. È un bene che ci siano anche quei termini inglesi a venire in soccorso quando non si sa che parola usare. L’importante è sempre l’equilibrio. Ma se ci sono persone per cui il rapporto con la propria lingua madre non è così importante e definitivo, per altre è invece cruciale, fonte di profonda introspezione e anche di qualche dilemma interiore.

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La lingua è identità, ma è anche appartenenza

Come quando Ocean Vuong, nel suo bellissimo (e se non l’avete ancora letto correte in libreria o in biblioteca) “Brevemente risplendiamo sulla terra”, scriveva: «Volevo piangere ma non sapevo ancora come farlo in inglese». La lingua è identità ma è anche accettazione, sentirsi parte di un insieme, non essere lasciato ai margini. Senza la lingua non si appartiene mai abbastanza, chi è bilingue in una terra straniera lo sa meglio di me.

È in questo caso che, mi immagino, la mancanza delle parole dello spettro queer in quelle lingue può diventare un dramma. Il linguaggio che usiamo sin da quando siamo piccoli, con cui abbiamo iniziato a parlare, per molte persone crea un legame univoco che ci legittima. Cosa succede, allora, quando non ha la parola che descrive cosa siamo? Cosa dice sulla nostra esistenza, a chi ci si può affidare allora? Magari tutte queste sono congetture, e chi ne è diretto interessato non lo vive come un problema così grande. Se mi immedesimo nella situazione, però, e la mia lingua madre non avesse una parola come “lesbica” in cui identificarmi, immagino che la sensazione che proverei sarebbe smarrimento, come minimo.

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Nemmeno noi traduciamo coming out: cambierebbe qualcosa?

Eppure non è molto lontano da quello che ho provato con quella che è veramente la mia lingua madre, l’italiano. Quando è arrivato il momento del mio coming out, nei primi anni di liceo, non capivo bene cosa significasse. Il coming out era un concetto che vedevo su Internet, Tumblr ne era pieno, ma se cercavo una spiegazione di cosa significasse in italiano, i risultati che mi uscivano erano ancora quelli di una colpa da confessare e per cui chiedere assoluzione. Forse se ci fosse stato un termine diverso l’avrei affrontato diversamente, forse no.

Fatto sta che qualche riflessione attorno al linguaggio che si interseca con il significato, simbolico e non, del fare coming out mi ha sempre accompagnata. Sarà sicuramente minore tra tutti i problemi che la comunità LGBTQ+ deve affrontare, ma se anche l’Asian Health Services sta lavorando a un glossario per gli immigrati asiatici che non parlano inglese che include nuove parole per questi termini, forse non va poi così sottovalutato.

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