Ebrar Karakurt, stella emergente della pallavolo turca, è recentemente salita agli onori della cronaca non solo per le sue prodezze atletiche ma anche per essere divenuta, suo malgrado, il fulcro di un dibattito che incrocia sport e questioni LGBTQIA+.
Dopo una straordinaria vittoria agli Europei di pallavolo contro la Serbia, una partita che ha fatto palpitare i cuori e riscritto la storia dello sport femminile turco, Karakurt è stata immediatamente messa sotto il fuoco di critiche e attacchi da parte di esponenti islamisti e imam.
Sebbene la pallavolista non abbia mai rilasciato dichiarazioni ufficiali riguardanti il suo orientamento sessuale, è diventata oggetto di attenzione e critica a causa di un caloroso abbraccio con la sua compagna di squadra Melissa Vargas, oltre a essere stata fotografata in diverse occasioni in compagnia di altre donne.
Il messaggio da parte di alcuni utenti e politici conservatori è stato inequivocabile:
“Non vogliamo lesbiche in squadra“.
In precedenza, quotidiano filogovernativo e islamista Yeni Akit aveva addirittura definito Karakurt una “vergogna nazionale“, mentre oggi anche un noto imam di Istanbul si è unito al coro dei conservatori dopo il match, esprimendo il proprio disappunto per le giocatrici “infedeli” e i “troppi shorts, troppi abbracci“.
Commenti che fanno parte di una più ampia campagna discriminatoria in Turchia, un Paese in cui la tensione tra valori laici e tradizionali è palpabile e si riflette anche nelle posizioni ufficiali, come quelle del presidente Erdogan – che definisce un “pervertito” chiunque si identifichi come queer e inneggia a una fantomatica “lotta per difendere i valori tradizionali“. Forse ci ricorda qualcuno.
Due giorni fa, infatti, quest’ultimo ha lamentato la presenza di “colori LGBT” negli uffici delle Nazioni Unite – salvo poi l’appunto di alcuni colleghi che gli hanno fatto notare che si trattasse dei 17 colori dello Sviluppo sostenibile.
Ma come ha reagito Karakurt?
Con un’ammirevole compostezza e un pizzico di ironia che ha contribuito a smontare l’odio e la propaganda veicolata contro di lei. “Questa non è la prima finale che giochiamo, né la prima guerra psicologica che affrontiamo“, ha dichiarato.
Ebrar Karakurt non è solo un simbolo di eccellenza sportiva, ma è divenuta un’icona involontaria per la lotta contro pregiudizi e bigottismo.
La vicenda di illumina la persistente battaglia che l* atlet*, LGBTQIA+ e non, affrontano contro stereotipi e preconcetti che esigono una conformità a certi “standard”, oltre a evidenziare come lo sport possa essere sfruttato come ulteriore veicolo per diffondere odio e intolleranza.
Tuttavia, la dignitosa resistenza di Karakurt all’intolleranza rappresenta un segnale che il vento sta cambiando: la nuova generazione è meno incline a “ridimensionarsi” o ad abbassare la testa di fronte a simili manifestazioni di pregiudizio.