«All’enorme comunità di persone e aziende in tutto il mondo che dipendono da noi: ci dispiace. Abbiamo lavorato duramente per ripristinare l’accesso alle nostre applicazioni e servizi e siamo felici di riferire che ora stanno tornando online. Grazie per averci sopportato».
Termina così, con un tweet da parte del Gruppo Facebook, il più lungo blackout social dal marzo del 2019. Più di sette ore di vuoto, la totale assenza della santa triade zuckerbergh-iana (Facebook, Instagram e WhatsApp). Miliardi di utenti lasciati a loro stessi, nella più acuta desolazione. La disfunzione social svela l’inganno, la solitudine e lo Zeitgeist.
Ma a chi interessa delle persone? Qui bisogna fatturate! Un grazie per averci sopportato che è costato più di 1miliardo e 100milioni all’economia globale (secondo la piattaforma Netblocks) e circa 5,9 miliardi al patrimonio personale di Mark Zuckerberg. Il titolo, che in Borsa negli ultimi mesi aveva raggiunto il valore più alto dal giorno della sua quotazione, è calato a picco, una discesa vertiginosa nel giro di poche ore.
Tutto è iniziato circa 24ore fa, quando al programma statunitense 60 Minutes, Frances Haugen – ex dipendente dell’azienda di Menlo Park – ha dichiarato di aver diffuso migliaia di documenti riservati al Wall Street Journal, facendo partire l’inchiesta “Facebook Files”. L’informatrice 37enne ha sbandierato i retroscena di Zuckerberg-Landia, servendo al suo ex capo l’ennesima patata bollente.
È da anni che Zuckerberg gioca il ruolo di capro espiatorio per gli alti funzionari dello Stato americano. Più volte sotto processo, il Mita dei social network sembra attraversare ora una delle crisi più dure. Haugen in TV ha dichiarato che «Facebook, più e più volte, ha dimostrato di preferire il profitto alla salute mentale degli utenti», aggiungendo che la rivolta di Capitol Hill, avvenuta lo scorso gennaio, sia stata causata in parte dal sistema di algoritmi introdotto nel 2018, che ha aumentato di molto la diffusione delle fake news. Insomma un’isteria collettiva alimentata dal bombardamento social di notizie create ad hoc per infuocare gli animi e spargere paura tra la popolazione, con buona pace delle politiche trumpiane.
«C’erano conflitti di interesse tra ciò che era buono per il pubblico e ciò che era buono per Facebook», ha continuato Frances Haugen. Secondo le indagini del WSJ l’azienda americana ha sempre scelto di incrementare i propri profitti a discapito del benessere dei singoli e della salute pubblica, quindi della Democrazia. «È più facile infondere nelle persone la rabbia che altre emozioni», ha concluso Haugen.
Lo scorso 15 settembre era apparsa un’altra inchiesta del Wall Street Journal, grazie alle informazioni di una talpa interna al Gruppo Facebook, che metteva in luce gli effetti disastrosi dei social sugli adolescenti. I risultati delle indagini sono stati sconcertanti. «Il 32% delle ragazze adolescenti ha affermato che quando si sentivano male per il proprio corpo, Instagram le faceva sentire peggio». Inoltre sempre in quei giorni il WSJ ha reso pubblici dei documenti che esplicitavano la scarsa attenzione di Zuckerberg&co verso i propri utenti e la tendenza a favorire la diffusione di notizie false per incrementare l’interazione e la crescita dei suoi social.
Una catastrofe annunciata, un campo minato su cui Zuckerberg non è passato indenne. Ora Haugen dovrà presentarsi davanti a una sottocommissione del Senato americano, che discuterà sulla «protezione dei giovani online», per testimoniare come persona informata sui fatti.
L’ex dipendente, diventata già paladina dei piani alti del governo statunitense, ha presentato le dimissioni da Facebook lo scorso aprile, non prima di sottrarre tutte le documentazioni necessarie per far partire le indagini. Assunta a Menlo Park nel 2019, ha lavorato per diversi mesi al Civic Integrity team con il compito di vigilare sulle elezioni politiche nel mondo e analizzare come il social avrebbe potuto essere usato in modo illecito dai governi stranieri.
Haugen non è la prima dipendente a ribellarsi alle aziende multimiliardarie di San Francisco. Proprio lo scorso dicembre Adelphi ha pubblicato La Valle Oscura, autobiografia scritta da Anna Wiener che per dieci anni ha lavorato per numerose startup della Silicon Valley. La scrittrice denuncia il totale disinteresse delle aziende informatiche verso il fruitore dei loro prodotti, oltre al forte maschilismo che permea anche questo settore. «Mi fermai sulla soglia e contai le donne. Ce n’erano tre». Wiener mette in luce «il culto dei Big Data», spiegando che le aziende per cui lavorava erano ossessionate dal raccogliere più dati possibili, di qualsiasi tipo, sui propri clienti, per scopi che a lei non venivano spiegati.
Roberto Calasso definisce questo periodo Innominabile Attuale, dove a trarre profitto dall’indeterminatezza collettiva sono i soli a capo delle aziende californiane che gestiscono tutto l’apparato digitale, nominati da lui settari per l’ingente quantità di denaro a disposizione e scopi comuni apertamente dichiarati.
«Questo stato delle cose potrebbe anche apparire esaltante. Ma si esaltano solo i settari, convinti di tenere il bandolo di ciò che accade. Gli altri – i più – si adattano. Seguono la pubblicità. […] E ovunque urtano gli spigoli di un oggetto che nessuno è riuscito a vedere nella sua interezza. Questo è il mondo normale. […] Ciò che prevale è l’inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l’età dell’inconsistenza».
Nel mentre, intellettuali del calibro di Yuval Noah Harari si dichiarano apertamente «Anti Silicon Valley», che sembra suonare come AntiFa.
Il terreno è fertile, urge introdurre nel dibattito pubblico una riflessione ulteriore: ragionare sull’uso e sul consumo dei social e di tutte le piattaforme web e sul cambiamento che quella stretta cerchia di potenti – i così detti Transumanisti – vogliono apportare a livello globale. Il discorso diviene sempre più complesso, nel mentre navighiamo in un mare di continui input digitali, le acque sono torbide e nessun approdo è visibile. Come cantava Loredana Bertè nel ’93 «siamo ufficialmente dispersi».
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Splendido ! Il potere si riappropria dell'informazione " addomesticata" o , meglio controllata e politically correct.