Arriva finalmente in Italia grazie a I Wonder Pictures uno dei casi cinematografici degli ultimi mesi. Flee di Jonas Poher Rasmussen, un anno fa presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival e da allora in grado di vincere decine di riconoscimenti, compresi tre European Film Awards, per poi fare la storia Academy con tre nomination agli Oscar mai viste prima. Miglior lungometraggio animato, miglior film internazionale e miglior documentario. Nessuna pellicola c’era mai riuscita. Una tripletta inimmaginabile fino all’arrivo di questo ambizioso e innovativo capolavoro che stordisce per forza visiva e narrativa, mostrando al pubblico una storia vera, realmente accaduta, raccontata in prima persona dal protagonista, rimasto anonimo per rispettare la privacy della sua famiglia, nel frattempo tornata in Afghanistan.
Amin ha 36 anni, attualmente vive in Danimarca, è un affermato docente universitario e ha sposato l’amato compagno. Ma proprio poco prima delle nozze il passato torna a fargli visita, facendogli ripercorrere gli anni della sua adolescenza, quando dall’Afghanistan arrivò in nord Europa dopo un lungo viaggio, con la speranza di chiedere asilo, dopo aver attaversato l’inferno della guerra e della discriminazione.
Flee è lo straziante, commovente e al tempo stesso straordinario racconto di una fuga che si è faticosamente trasformata in inno alla vita e alla libertà. Il regista e documentarista radiofonico Jonas Poher Rasmussen, che incontrò il suo amico Amin Nawabi (pseudonimo) negli anni ’90, quando Amin si trasferì nella piccola città dove Jonas è cresciuto, ha dato forma ad un’inusuale, poetica e veritiera cronaca dell’odissea vissuta dal giovane, alla disperata ricerca della felicità.
20 anni dopo averlo conosciuto, quest’ultimo ha accettato di raccontare la sua vera storia famigliare a Jonas, attraverso lunghe interviste che il regista ha reso in immagini animate, intrecciando ricordi e documenti filmati reali, spingendo il confine della forma ibrida documentaria verso vette fino ad oggi mai sperimentate. Perché Flee è un documentario a tutti gli effetti, ma a tecnica mista, con stili di animazione che riflettono i diversi stati d’animo del protagonista da alternare a scene live-action tratte dai cinegiornali d’epoca, per collocare la storia di Amin nello spazio e nel tempo, rafforzando la natura documentaria del progetto. Dal punto di vista animato non si vedeva nulla di simile da Valzer con Bashir, meraviglia del 2008 di Ari Folman.
Ma con Flee si va addirittura oltre, perché lo sforzo produttivo è enorme e innovativo, tra animazione 2D convenzionale e sequenze più grafiche ed astratte, in corrispondenza di eventi traumatici che hanno caratterizzato l’adolescenza di Amin, costretto a fuggire dall’Afghanistan in guerra e assediato dai talebani. Perso il padre, fugge con sua madre, i fratelli e le sorelle in Russia, dove vengono cacciati casa per casa e costretti a stare anni chiusi in un appartamento perché profughi senza documenti. In più occasioni tentano di scappare attraverso canali illegali, trafficanti di esseri umani strapagati, tra asfissianti container e disperati viaggi in mare, a bordo di pericolanti barchette in cui rischiano la vita. Amin, poi, è omosessuale, ne è consapevole e al tempo stesso terrorizzato, venendo da un Paese in cui neanche esiste un termine per definire l’omosessualità, perché molto banalmente da un punto di vista sociale ‘non esiste’. Separato dai propri affetti, piomba nella totale solitudine in Danimarca, costretto a mentire sulla propria famiglia, a cancellarla, fino a quando non ritrova le sorelle e il fratello maggiore in Svezia, dove abbraccerà dopo infinite peripezie la vera definizione e il significato di casa, così faticosamente agognata, al fianco di un partner amorevole che è poi diventato suo marito.
Il viaggio infernale di Amin, raccontato dalla sua stessa voce rotta dall’emozione, inonda lo schermo con una potenza dirompente, che a lungo lascia senza fiato, colpendo doppiamente per la sconcertante tempistica, che ha visto negli ultimi 12 mesi i talebani tornare al potere in Afghanistan, decine di migliaia di africani in fuga dai conflitti interni e l’Europa piombare nella Guerra a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Il calvario di ogni rifugiato, che abbraccia discriminazioni di vario tipo, pericoli infiniti e perdita delle proprie radici culturali pur di sopravvivere e guardare ad un qualsiasi futuro, prende forma con la storia di Amin, qui raccontata attraverso una fusione di generi che non può lasciare indifferenti. L’idea dell’animazione, così inusuale quanto straniante nel suo essere fortemente realistica e a tratti espressionista, è invece il colpo di genio di un progetto che in caso contrario mai avrebbe potuto trovare forma, rimanendo comunque ancorato alla realtà grazie alla voce di Amin, protagonista di un viaggio verso la libertà dalle tappe strazianti.
I traumi di Amin, a lungo segnato dalle guerre, dalla paura, dalla solitudine e dal dolore, sono lì a rimarcare quanto le bombe possano stravolgere intere esistenze, segnando a lungo e nel profondo anche chi sia riuscito a sopravvivere. Nel suo lungo percorso di accettazione di sè, Amin ritrova il sorriso perduto in tenera età solo dopo aver faticosamente metabolizzato quanto vissuto, condiviso la propria storia e il proprio io alle persone care, grazie anche a questa terapia documentaristica tramutata in attivismo animato, in ricordo grafico, in cruda ed emozionante meraviglia pittorica, in tavolozza di speranza, in indimenticabile capolavoro cinematografico.
Voto: 9.5
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Articolo che rende perfettamente l'idea di ciò che a breve sarà possibile andare a vedere sul grande schermo. A mio parere apprezzo molto il mix tra lo stile di animazione alternato a scene live-action e trovo che sia davvero importante affrontare tematiche del genere, specialmente di questi tempi. Grazie a gay.it per l'accurato articolo!