Essere sdraiati sul lettino di un terapista e concentrarsi su una mosca che vola vicina al soffitto, pensando a tutto ciò che si vorrebbe confessare ma non poterlo proferire, riuscendo a dirlo solo nella propria mente attraverso suoni, immagini e assonanze che hanno il potere di congiurare una febbre a cui non si può rinunciare. È questa la sensazione che si ha ascoltando Dance Fever, il nuovo e quarto album di Florence and the Machine. I suoi fan lo sanno, se è possibile individuare un profeta del nostro tempo, sarebbe sicuramente miss Florence Welch.
Dance Fever è una confessione della cantante che, come per l’ultimo album di Adele, canta di cosa significa essere donna, ma aggiunge anche l’autodistruzione, le luci e ombre dell’essere un genere così mutabile e complesso da rendere difficile catturarne le mille sfaccettature. Ma è anche una liberazione, concepita durante il primo lockdown del 2020, quando tutte le emozioni che si trovano al suo interno erano state rinchiuse come in una gabbia.
Nell’immaginario che è ormai il suo marchio di fabbrica – pieno di storie e mitologia, di tragedie e leggende, di colori pastello e di un’aura mistica – per questo album Florence si è ispirata alla coreomania, il fenomeno della “peste della danza” proprio del Rinascimento, ma anche alle tragiche eroine dell’arte preraffaellita, la narrazione gotica di Carmen Maria Machado e Julia Armfield, l’onda viscerale dei film horror folkloristici, da The Wicker Man e The Witch a Midsommar.
C’è qualcosa delle donne che cantano di altre donne, quelle della mitologia greca offese e ferite da uomini che non le voleva ascoltare, che è semplicemente affascinante.
Come Cassandra, che vedeva il futuro ma le cui parole non volevano essere ascoltate, così le tagliarono metaforicamente la lingua, costringendola al silenzio e additandola come pazza. A proposito di uomini e di pazzia, nessuno come Florence riesce a mettere in testo quanto sia accettabile ignorare ciò che gli uomini dicono delle donne così, perché va bene essere sé stesse, libere nella propria follia.
Tutto Dance Fever è caotico e pazzo e strano. Una sorta di tristezza ansiosa lo pervade, insieme alla necessità di una connessione – una di qualsiasi tipo – che si manifesta come vignette gotiche che saltano da un genere all’altro e al dipanarsi di metafore che poco a poco vanno a formare quella candida confessione. Il suo suono è così grande e devastante che sembra inglobare tutto dentro di sé. Ma al centro c’è anche il pubblico, quello di cui Florence necessita: non qualcuno che semplicemente fa il tifo per ciò che dice, ma qualcuno che davvero ascolta, qualcuno che canta in ritorno.
Il mondo non è in bianco e nero, e Florence ne è consapevole. Fra i suoi testi e la celebrazione delle donne in rivolta contro un patriarcato che le vorrebbe calme e obbedienti ci sono anche tutto il peso e la fatica di essere così libere. Come nella prima traccia di Dance Fever, King, che diventa allo stesso tempo un inno al potere femminile e un più triste “Io sono un re”.
Un re con una corona di dolore che fissa il vuoto in ampi saloni oscuri, che continua a iniziare guerre nonostante il suo io stia andando nella direzione opposta. “Re” non solo come simbolo di potere, ma anche come l’empia facciata di un regno interiore dilaniato e devastato dalla guerra.
Le coordinate in cui si muove la maestosità di Florence and the Machine – scottante e irriverente, capace di far scaturire emozioni e sentimenti selvaggi e ferali – sono il rifiutare le trappole quotidiane in favore di un sogno più grande e tutti i pericoli che quello stesso sogno comporta. Sono i suoi due fermalibri: il sogno irrequieto e l’eventuale distruzione. In mezzo, la speranza e il desiderio di giorni migliori.
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