Chi ama il cinema nordico alla Kaurismaki, quindi minimalista, surreal-grottesco e poeticamente stralunato, non si perda questa chicca norvegese del 2007 ripescata un po’ ingiustamente come scampolo di fine stagione: Il mondo di Horten. Il nome del regista, che ai più non dirà molto, è Bent Hamer, autore degli ugualmente bislacchi ma meno riusciti Kitchen Stories e Factotum (quest’ultimo con Matt Dillon e Lily Taylor, ma dimenticato, più che dimenticabile, abbastanza in fretta).
Il solitario e taciturno sessantasettenne Odd Horten ha guidato per quattro decenni lo stesso treno sulla medesima tratta, la Bergen-Oslo, e giunto sulla soglia della pensione decide di reinventarsi l’esistenza fin troppo ordinata e ripetitiva: vende la barca chiamata come l’anziana madre ricoverata in un ospizio e ammutolita dalla demenza; decide di salire per la prima volta su un aereo; cambia l’amata pipa e si mette a fare strani incontri, quali un sedicente diplomatico con l’hobby di guidare bendato insieme al suo cagnone stordito. Ma l’abbandono di un’abitudinarietà anche rituale causa uno strano effetto su Odd che si addormenta un po’ovunque e ad ogni orario. E quando si ritrova a nuotare da solo, di sera, in una piscina chiusa dove si intrufolano due ragazze lesbiche per amoreggiare liberamente, decide – e questo tocco gender è il più imprevedibile e incongruamente deragliato dell’intero film – di indossare un bel paio di scarpe femminili rosso fuoco con tacco a spillo (si presume di una delle donne) e vagare per Oslo con una certa disinvoltura e padronanza del mezzo, tant’è che pure il suo nuovo amico si stupisce quando Odd gli spiega che non sono sue, valutando l’ipotesi più che verosimile. Insomma, basta un po’ d’ironia per scoprire il proprio lato femminile anche da anziani, magari proprio apprendendo come si muovono tutti i giorni le donne.
Il mondo di Horten è un malinconico, rarefatto, bizzarro omaggio alla terza età (giustamente riscoperta e rivalutata dal cinema d’autore europeo contemporaneo, si vedano Pranzo di ferragosto e Settimo cielo) che non vuole piangersi addosso o ironizzare sulle proprie debolezze ma anzi evidenzia l’importanza di sapersi reinventare e riscoprire il gusto di vivere attraverso il brivido dell’imprevisto che qui, umoristicamente, è dettato da piccoli incidenti quotidiani, quali un citofono che non funziona o un frigorifero che spara cubetti di ghiaccio. E sotto sotto, col pretesto della gag a miccia lenta, riscoprire un senso solidale dell’amicizia tutta al maschile – come già succedeva in Kitchen Story – che non preclude la sorpresa di (ri)trovare la donna amata proprio lì, alla fine non dell’arcobaleno ma del metaforico tragitto ferroviario.
Il cuore del film sta però nel volto scavato e imperturbabile del protagonista magnificamente interpretato da Baard Owe (Il Regno I e II), quello che gli americani definiscono deadpan, ossia senza espressione, e in cui però ogni ruga e ogni minimo movimento facciale hanno un sacco da dire e raccontare.
Dedicata alla madre e a tutte le donne che praticano il salto con gli sci – è l’unica vera avventura pericolosa in cui si getta anche un po’ incoscientemente Odd – questa singolare favola notturna immersa nella candida neve norvegese ha alcuni momenti davvero commoventi quali il simbolico salto notturno in cui la mamma ringiovanita si volta a osservarlo e la toccante scena nel negozio di pipe in cui la vedova scopre di amare la stessa marca dell’ex ferroviere. Da vedere.
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