La moda è veramente inclusiva?

Dietro la facciata c’è una casa fondata su razzismo e discriminazione.

moda inclusiva
6 min. di lettura

Diversità e inclusività sono le parole che in questi anni sentiamo in continuazione arrivare dalla moda, ma è davvero così? Spinto dalla voglia di capire meglio cosa stia succedendo al sistema moda, ho scritto questa riflessione. Per comprenderlo, non per distruggerlo.

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Vi siete mai chiesti perché la moda ha sentito su di sé il dovere di rappresentare la parità tra le varie “razze” dell’umanità? Lo so, è antipatico parlare di razze, ma se vogliamo fare qualche riflessione su come la moda si comporti con la questione dei – come vogliamo chiamarli? – colori della pelle, tratti somatici (eccetera), mi tocca chiedervi di accettare l’uso della parola “razza”. La moda è la seconda industria al mondo (dopo quella alimentare), la moda è basata sull’espressione di sé e sulla creatività, la moda non vende semplicemente capi di abbigliamento, la moda vende autostima e identità personale: per questo, la moda, è su un crine pericoloso, perché è potente grazie agli immensi fatturati, ma – a differenza dell’industria alimentare o quella dell’energia – ha a che fare con l’identità degli individui e con l’espressione del sé. Per questo non può svolgere il proprio ruolo di forma di espressione, se non avvallando qualunque diversità e contemplando qualunque forma di inclusione. Così dovrebbe essere, ma è davvero così?

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Certo, la questione “razziale” è rovente su tutti i fronti della società contemporanea, ma la moda, inutile raccontare favolette di marketing, è nota per avere una cattiva reputazione con la razza. Nella moda la diversità razziale può essere misurata con la pubblicità: le persone che vengono scelte per rappresentare un marchio nelle campagne pubblicitarie o sulle passerelle.

The Fashion Spot, che è un forum dove si parla di moda, ha condotto svariati sondaggi e studi sulla scena in evoluzione della pubblicità di moda e ha riferito che dei 529 modelli presenti nelle campagne di moda della SS2019, il 34,50% erano modelli neri.

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Allo stesso modo, un anno dopo, alla settimana della moda di New York Primavera/Estate 2020, il 47% delle modelle che sfilavano in passerella erano nere. Questo è un progresso rispetto a quando The Fashion Spot ha iniziato a registrare questi numeri nel 2015, quando c’erano solo il 17% di modelli neri. Dunque, possiamo dirlo: le campagne di moda sembrano andare nella giusta direzione: verso una rappresentazione razziale più diversificata. I marchi vogliono essere percepiti dal pubblico come più progressisti, dunque rinfrescano la propria immagine per stare al passo con le esigenze di una società che a gran voce chiede più parità (in questo caso razziale, ma non solo). E però, se è vero – ed è vero – che la pubblicità è estremamente importante, io chiedo: può essere sufficiente?

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La sensazione è che sia – per ora – tutto un make up inclusivo di facciata, e che l’attenzione alle tante diversità (razziali e non solo) umane sia soltanto un’azione di comunicazione. Ed è difficile sottrarsi a quella che sembra una specie di propaganda, può essere difficile sapere come si presenta il vero cambiamento. Ad esempio, sulla passerella Prada dell’autunno 2018, Anok Yai è entrata nella storia come la prima modella nera ad aprire una sfilata di Prada 23 anni dopo Naomi Campbell. Io amo Prada, ma dovremmo applaudirla per questo? D’altronde conosciamo tutti il passato problematico di Prada, ovvero gli oggetti “Pradamalia” che assomigliavano a blackface nel dicembre 2018. Ora, inutile prendersela con Prada, anzi vorrei ricordare che, tutto sommato, Miuccia Prada ha fatto dell’errore un segno distintivo della propria estetica, Prada è stata una delle ultime immensità della storia della moda, per questo mi permetto di essere esigente. Dunque, inutile prendersela con un brand, il problema è l’intero sistema moda.

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A Vogue America, durante un servizio fotografico un make up Artist e una parrucchiera hanno dovuto rinunciare al loro lavoro a chiamata, altra piaga del sistema, perché sprovvisti di materiale e impreparati su come truccare e pettinare una modella nera. Questo incidente mostra che assumere modelli neri non è sufficiente se l’infrastruttura del settore non è costruita per accoglierli. Un incidente da solo mostra la necessità di una revisione infrastrutturale completa in ogni aspetto dell’industria della moda. E forse dell’intera cultura retrostante!

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L’ultimo episodio colpisce Chiara Ferragni e il lancio della sua linea make-up insieme a Douglas. Come a ogni lancio, i brand mandano agli influencer e alla stampa selezionata i prodotti che proveranno, testeranno o semplicemente fotograferanno per aumentarne l’hype, ma anche in questo caso come ha fatto notare Loretta Grace, cantante/attrice e creator da oltre 80k follower, le influencer/modelle/creator nere sono state escluse dalla lista.

Dunque è qui che l’inclusività diventa estremamente importante: il vero cambiamento va molto più in profondità del semplice fatto di avere persone nere in una campagna pubblicitaria, o nel lancio di un prodotto. Bisognerebbe avere processi culturalmente preparati ad affrontare ogni singolo aspetto, prima che un messaggio o una merce arrivi al singolo consumatore.

Anche i media che lodano costantemente e riportano solo pochi nomi dovrebbero assumersi la responsabilità. Ad esempio, innumerevoli articoli sul guardaroba di Kendall Jenner sono facilmente accessibili, tuttavia, gli articoli sui modelli neri sono a malapena rappresentati nei media mainstream.

Durante la collezione autunnale di Mugler, Dominique Jackson, attrice e modella transgender, ha rubato la scena a tutti con la sua camminata ispirata a quella di Naomi Campbell negli anni ’90. Poche pubblicazioni hanno coperto la storia, i media mainstream hanno scelto di concentrarsi su Bella Hadid e Irina Shayk. I social media hanno elogiato Dominique e Hunter Schafer, modella e attivista LGBTQIA+, per la loro partecipazione allo spettacolo, mentre sembrava che l’attenzione del mainstream non riconoscesse i loro sforzi.

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In un’intervista alla Oxford Union Society nel 2015, l’onnipresente Anna Wintour ha commentato il progresso della moda e il suo futuro. Wintour ha dichiarato: “La moda è molto più democratica e aperta a tutti, non è una porta chiusa e tu sei fuori dalle corde dove nessuno ti lascerà entrare. Adesso tutti sono invitati alla festa”.

Sì, siamo invitati alla festa, ma non necessariamente nella lista degli invitati. I devoti della moda sono ancora fuori dal club congelati mentre sperano che il buttafuori li scelga dopo.

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La moda ha una facciata inclusiva, ma dietro la facciata c’è una casa fondata su motivi traballanti di razzismo e discriminazione. Lentamente, i muri tremano per le parole e il rumore della nuova guardia della moda che non tollera la mentalità attuale denunciandola con la kriptonite dell’intera industria, i social network.

Perché se ne parla così tanto? L’attuale stato della moda sta compromettendo la possibilità del proprio sogno. Il mondo è pieno di designer emergenti che vogliono “fare le cose in grande”, ma un sistema che è difettoso e ingiusto per natura, purtroppo non glielo permette.

Vedere continuamente volti bianchi riconoscibili negli articoli di moda e nella copertura dei media dimostra che l’inclusività non è presente nel mondo della moda seppur continuano a ripetere dai piani alti che il futuro della moda è per tutti, ci dicono, tutti sono invitati, continuano a farci credere, ma e le porte sono davvero spalancate? Nessuno sta veramente aspettando in fila e quindi basta entrare e sentirsi a casa? Lo scopriremo forse tra pochissimo, o forse mai.

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