La poesia Gucci di Alessandro Michele uccisa perché il fatturato cresceva del 9% e non del 10%

Il capitalismo e le sue logiche di consumo e profitto possono essere utili alle contro culture fino a quando non sono essi stessi a ucciderle.

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alessandro michele gucci
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Alessandro Michele lascia la direzione creativa del marchio Gucci dopo 7 anni di successi e rivoluzione. Da qualche giorno la notizia circolava nel fashion system tra l’incredulità generale, ma ieri sera è arrivata la conferma nei comunicati ufficiali della multinazionale francese Kering, proprietaria del marchio, e dello stesso Michele, che in un toccante post ha così celebrato il proprio commiato:

“Ci sono momenti in cui le strade si separano in ragione delle differenti prospettive che ciascuno di noi può avere. Oggi per me finisce uno straordinario viaggio, durato più di venti anni, dentro un’azienda a cui ho dedicato instancabilmente tutto il mio amore e la mia passione creativa. In questo lungo periodo Gucci è stata la mia casa, la mia famiglia di adozione. A questa famiglia allargata, a tutte le singole persone che l’hanno accudita e sostenuta, va il mio ringraziamento più sentito, il mio abbraccio più grande e commosso. Insieme a loro ho desiderato, sognato, immaginato. Senza di loro niente di tutto quello che ho costruito sarebbe stato possibile. A loro quindi il mio augurio più sincero: che possiate continuare a nutrirvi dei vostri sogni, materia sottile e impalpabile che rende una vita degna di essere vissuta. Che possiate continuare a nutrirvi di immaginari poetici ed inclusivi, rimanendo fedeli ai vostri valori. Che possiate sempre vivere delle vostre passioni, sospinti dal vento della libertà.” (dal post di Alessandro Michele)

Le ragioni dell’addio non sono passate sotto traccia. La corporation del lusso Kering era insoddisfatta dei recenti risultati di fatturato. Da quando nel 2015 Michele assunse la direzione creativa di Gucci, il brand aveva scalato tutte le classifiche, diventando il fashion brand più ricco e venduto al mondo. Per anni, con Alessandro Michele alla guida, Gucci era cresciuta con percentuali del 35% a trimestre fino a circa un anno e mezzo fa, quando – in piena pandemia e soprattutto nel mercato cinese – era iniziata la flessione del tasso di crescita. Sia chiaro, oggi Gucci cresce ancora, ma soltanto del 9% e non del 10%, che è la percentuale minima richiesta come obiettivo da François-Henri Pinault, azionista di maggioranza della multinazionale Kering.

Vista la flessione della crescita degli ultimi mesi, lo stesso Pinault aveva chiesto a Michele di ripensare al marchio, ma Michele si è sostanzialmente opposto allo stravolgimento preteso dalle regole del profitto e dalle aspettative finanziarie.

Alessandro Michele aveva iniziato a lavorare in Gucci al fianco della precedente direttrice creativa Frida Giannini nel 2011. Poi, nel 2015, quando Giannini lasciò, l’allora sconosciuto Michele fu chiamato – tra lo stupore generale – ad assumere la guida del marchio. E fu una inaspettata e travolgente sorpresa.

Alessandro Michele organizzò in poco più di due settimane una rivoluzione di immagine e di valori, portando sulla passerella della Milano Fashion Week una collezione ispirata al “baule della nonna”. Pizzi, merletti, fluidità di genere, l’arrivo di Michele alla direzione di Gucci cambiò la moda per sempre. Alessandro non solo ribadì il dovere di un creativo di raccontare il proprio sogno e portare in scena la propria visione individuale. Alessandro legittimò, sul palcoscenico più mainstream e influente dei consumi globali, l’abbattimento del binarismo di genere che in quegli anni iniziava a farsi strada nelle controculture occidentali, dal Nord Europa al Nord America.

Con la rivoluzione portata avanti da Alessandro Michele, dall’Ad Marco Bizzarri e da un giovane e sperimentale dipartimento di comunicazione, Gucci passò da 4 a 10 miliardi di fatturato in pochi anni. Tutta la moda fu travolta da questa nuova epifania valoriale e improvvisamente Gucci, che nel 2015 era un semplice marchio di profitto che non lasciava alcuna traccia di sé nella società dei consumi e dei costumi, diventò già a fine anno la nuova referenza assoluta, la luce che apriva una strada nuova per un’industria stanca e ripiegata su sé stessa.

Ma non è bastato. Il fatturato deve crescere almeno del 10% e Gucci stava crescendo soltanto del 9%. Andrea Batilla, influente osservatore dei meccanismi contemporanei del fashion system, ha così amaramente commentato l’addio di Michele a Gucci:

“La domanda che ci dobbiamo fare in questo momento però non è se sia possibile crescere a questi ritmi per sempre, ma se l’umanità, intesa come elemento costitutivo di una visione strategica, sia ancora un elemento che interessa a qualcuno. Tutti i brand di Kering sono incentrati intorno all’estrema personalizzazione del progetto ( Balenciaga con Demna e Saint Laurent con Vaccarello sono esempi eclatanti) e questo rende il gruppo radicalmente diverso da LVMH che ha invece un approccio più razionale, meno istintivo o forse dovremmo dire meno autoriale. Rinunciare a Michele non vuole solo dire che i mercati vincono sempre ma vuol dire che quel modello è fallimentare sui tempi lunghi e ha senso solo in tempi brevi o brevissimi. La visione di Alessandro Michele, di cui tutti ci sentiamo orfani, ha portato ad una identificazione affettiva tra clienti e brand che non si vedeva dai mitici anni ‘90 e ha riacceso i motori sopiti della narrazione profonda dentro megabrand come Gucci. Eliminare Michele vuol dire neutralizzare la possibilità che l’intervento umano sia fallibile ma migliorabile, che la continuità sia un valore, che l’identità sia l’unica carta rimasta per continuare a creare senso e non solo a vendere borsette. Chi in questo momento, come me, si sente triste è perché sta vedendo trafitta la speranza che l’intero sistema moda possa essere più di un creatore di immensi guadagni, possa produrre significato e forse aiutare il cambiamento. Non è così. Arrendiamoci. E usiamo la tristezza per pensare al mondo che vorremmo che non è, decisamente, quello in cui siamo.” (dal post di Andrea Batilla).

L’addio di Michele a Gucci è scioccante per l’industria moda, che è tuttavia abituata a nutrirsi dei propri cadaveri per concimare nuovi orizzonti di stimoli creativi e fatturati crescenti. Ma è un duro colpo soprattutto per quella prismatica comunità di reietti, diversi, freak, non binari, creativi non omologati e persone avulse alle etichette che in Gucci hanno visto in questi anni una forma di approvazione inclusiva, un’accettazione ai piani alti del sistema. L’addio di Michele, un addio consumato per ragioni di fatturato, ci dice che il capitalismo e le sue logiche di consumo e profitto possono essere utili alle contro culture fino a quando non sono essi stessi a ucciderle.

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