Qualche settimana fa, come sempre indeciso su cosa guardare durante la cena, ho scovato Lady Oscar su una piattaforma di streaming. Lì per lì avevo qualche perplessità. I cartoni animati visti in gioventù e poi rivisti in età adulta, oltre a provocarmi un senso di nostalgia lancinante, mi sembrano un passatempo frustrante. Molti fra questi, infatti, perdono con la crescita quella patina magica di un tempo e spesso riguardarli da grandi guasta la nitidezza di dettaglio che avevano nei primi anni delle nostre esistenze. Ben poche cose mi sono rimaste impresse nella memoria con la vividezza con cui ricordo una determinata scena, una battuta in particolare, un gesto specifico visti o sentiti nei cartoni da bambino. Comunque sia, quella sera, l’irrequietezza dovuta alla spasmodica ricerca di qualcosa da guardare con un piatto fumante sotto al naso ha avuto la meglio, e mi sono finalmente deciso ad accendere la prima puntata.
La prima cosa a colpirmi è stato subito un verso della sigla Lady Oscar, scritta da Riccardo Zara e cantata da I Cavalieri del Re nel 1982 in occasione della prima messa in onda italiana del cartone:
“Il buon padre voleva un maschietto, ma ahimè sei nata tu”.
Quell’ahimè ha fatto trasalire il me adulto e rappresenta uno dei motivi per cui oggi Lady Oscar può risultare una serie controversa. Il fatto è che la definizione “buon padre” a cui “ahimè” è nata una figlia femmina anziché un maschio va contro ogni principio di genitorialità con cui noi stessi, figli degli anni Ottanta e Novanta, siamo cresciuti. Io ricordo soltanto adulti dire “basta che sia in salute” quando stava per nascere un bambino di cui non si conosceva ancora il genere; senz’altro ricordo anche padri o madri esprimere preferenze sul genere biologico dei figli nascituri, ma questa preferenza era sempre manifestata con un colpevole senso di pudore, perché prima di ogni altra cosa il bambino doveva star bene.
In Lady Oscar, invece, questo desiderio paterno viene spiattellato senza mezzi termini sin dalla sigla e, cosa per il me di oggi inconcepibile, all’epoca della prima messa in onda del cartone nessun genitore proibì di guardarlo perché diseducativo. Nessun “che ne sarà dei nostri bambini?” fu sguainato per difendere modelli di genitorialità irreprensibile o, per usare un aggettivo raccapricciante, “tradizionale”. Le cose stavano così, che ci piacesse o no, e se a qualcuno non stava bene, be’, che cambiasse canale!
La seconda pietra d’inciampo è stata poi la violenta e frettolosa assegnazione di genere imposta ad Oscar dal generale Jarjayes, suo padre, nei primissimi minuti dell’episodio pilota. Ma quant’è brutale questa decisione? Che danni psicologici potrà mai avere una simile azione sulla psiche di una bambina? Quant’è ferocemente ingiusto imporre una volontà maschile su una personcina che, al momento della scelta, nemmeno era in grado di parlare? Leggi: Cos’è la teoria gender? Un’invenzione fascista.
Oggi, per nostra immensa fortuna, di tutte queste cose se ne discute, ma mi domando: nel 1982 (e nei decenni successivi in cui il cartone fu trasmesso in TV) come veniva recepita questa imposizione, sempre a patto che venisse percepita come tale? Possibile che nessun genitore sia saltato dalla sedia difendendo a spada tratta quella sanità mentale dei bambini oggi tanto deplorevolmente sfruttata dalle destre, che la sciorinano come principale argomento contro una queerness deviante per cui, in realtà, nutrono disprezzo e diffidenza soltanto loro?
Siamo davanti quindi a una storia che come poche ha mandato in crisi gli stereotipi di genere. Una cosa è certa: per questa imposizione di genere oserei dire quasi in contumacia, Oscar ha sofferto una tremenda scissione che l’ha oltremodo confusa a vita e in più di una puntata, nei lunghi, sbarluccicanti monologhi a fermo immagine tipici degli anime, lo ammette lei stessa.
Chi sarebbe stata – e chi avrebbe amato – se il padre non le avesse imposto di vestirsi, atteggiarsi e vivere “da maschio”?
Non lo sapremo mai, e questa è senza ombra di dubbio la parte più dolorosa, affascinante e al contempo sbagliata del cartone. Mi rendo infatti conto che oggi Lady Oscar non è un prodotto godibile per tuttə in quanto può ferire o far imbestialire chi tutt’oggi combatte ogni giorno per essere chi sente di essere, conquistandosi a ogni occasione utile un pezzetto in più di verità e realtà. Queste, però, sono tutte considerazioni che io e tantə altrə facciamo circa vent’anni dopo, in un momento storico in cui anche in Italia, con la caotica lentezza culturale che ci contraddistingue, questo dibattito si è finalmente aperto e sta sensibilizzando, e polarizzando, l’opinione pubblica. Oggi per fortuna gran parte di noi – e il corsivo non è casuale – concorda sul fatto che imporre un genere a chicchessia è sbagliato perché chiunque deve essere liberə di imparare ad auscultarsi e guardarsi dentro, godendo dunque del sacrosanto diritto all’autodeterminazione.
Quel che mi fa specie è che quand’ero bambino negli anni Novanta, io, tutte queste cose, mica le sapevo – e di certo altrettanto vale per molti miei coetanei. Se provo a concentrarmi e a ripensare con che filtro di giudizio i miei occhi guardassero Oscar, mi viene difficile trovare un’etichetta di genere che potrei averle affibbiato all’epoca. Io credo che il me seienne vedesse in lei banalmente una persona bionda a cui il blu oltremare stava benissimo, una persona dalla lealtà disarmante, un personaggio il cui triste epilogo fu la prima volta in cui mi si spezzò il cuore.
Al me seienne, se Oscar indossava l’uniforme della Guardia Reale o l’abito da gran dama, non importava niente; se anziché di André alla fine Oscar si fosse innamorata di Rosalie o di Maria Antonietta, al me seienne non sarebbe importato nulla.
La cosa più preziosa che ho voluto recuperare riguardando Lady Oscar a trent’anni è proprio questo senso di infinita possibilità con cui lo vidi da bambino. Per me tutto era credibile, lei poteva vestirsi come voleva, amare chi voleva, essere chi voleva. Il patto narrativo, io l’avevo accettato e mi stava bene così. Gli stessi personaggi del cartone, a parte il padre, sembrano occuparsi ben poco della sua identità di genere.
Anzi, a dirla tutta forse è proprio la continua dicotomia fra maschile e femminile caratteristica di Oscar a renderla la figura più magnetica in assoluto nella vicenda: tutti ne sono ammaliati, tutti ne parlano, la desiderano, la amano – uomini, donne, persino la figlia dodicenne della duchessa di Polignac. Io credo che a stregarli sia proprio la fluidità di genere percepita in Oscar: un vocabolo per definirla non ce l’avevano – né ce l’avevamo noi in Italia all’epoca – ma era la queerness percepita a venir avvertita, e ciò accresceva l’immensa carica attrattiva di Oscar. Una rappresentazione suo malgrado di un vero e proprio non binarismo di genere.
Ma quindi, in tutto ciò, dov’erano gli odierni genitori conservatori che attribuiscono ogni male alla fantomatica “lobby gay” quando in televisione una neonata veniva dichiarata uomo contro ogni sua volontà e da adulta si vestiva da generale, facendo cadere ai suoi piedi donne e uomini indistintamente?
Non credo affatto che avessero fatto affidamento sul genuino approccio alle cose innato nei bambini, né tantomeno che avessero fatto congetture o valutazioni positive sulla fluidità di genere. Per qualche inspiegabile cortocircuito culturale, i loro campanelli d’allarme di lì a qualche anno ipersensibili al “politicamente corretto” e al presunto lobbismo della comunità LGBTQIA+ non suonarono. O forse si trattò semplicemente di assuefazione alla società patriarcale: per loro era ancora del tutto normale che un padre stabilisse a tavolino il destino di una figlia. Qualunque sia la ragione, oggi più che mai Lady Oscar è – nonostante le ombre che si porta dietro, dettate dai tempi che per fortuna cambiano – un cartone in grado di gettare una luce accecante sul nostro pensiero.
Remando contro ogni ingiusta imposizione paterna di genere e di rango, Oscar è stata uomo ed è stata donna e, nel finale, sceglie di vestire panni attribuiti per convenzione ai maschi e di amare un uomo, abbracciando il concetto di persona a tutto tondo. Se la cosa ci pare bizzarra, come si fa per ogni storia, si può sospendere l’incredulità e godersela comunque – perché, fra l’altro, i disegni del cartone hanno una cura estetica impeccabile e la cornice storica è delineata in maniera magistrale. I bambini degli anni Ottanta e Novanta lo seppero fare benissimo e mi pare che questo approccio spontaneo non abbia fatto del male a nessuno, anzi, ha infertilito il terreno per il dibattito sulla queerness per cui quarant’anni dopo ci battiamo, con un’impavidità che è anche un po’ merito della nostra madamigella Oscar.
Emanuele Bero
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