“Non puoi gareggiare con noi”: transfobia nel mondo dello sport

Vedere una donna trans di successo battere ogni record ci manda ancora in cortocircuito.

Lia Thomas
3 min. di lettura

Lia Thomas è una nuotatrice che si è guadagnata tre record scolastici e due vittorie nazionali nel giro di solo un mese. Lia è anche una donna trans, e questo sembra aver monopolizzato su tutto il resto.
Le critiche provengono da diverse angolazioni: tra articoli che la ritraggono con foto pre-transizione e utilizzano il deadname come fosse acqua di rose, la transfobia prende forma anche nella sua veste più subdola: quella della parità.

Lia Thomas e la sua amica Hannah Liu
Lia Thomas e la sua amica Hannah Liu

Per i primi tre anni presso la Penn University, Lia ha nuotato nella squadra maschile, portando avanti in parallelo il percorso di transizione. Dopo il suo coming out, per tutto il 2019 ha continuato a gareggiare con atleti uomini- esperienza che lei ha definito estremamente “sgradevole”.
Solo nell’estate 2020 e dopo aver soppresso il testosterone per più di un anno, come prevede il regolamento, la NCCA ha approvato la sua richiesta di gareggiare con il team femminile.
Covid 19 permettendo, Thomas è entrata in squadra solo nel Novembre 2021, con una terapia ormonale in atto da due anni e mezzo. 


Ma siccome vedere una donna trans di successo ci manda in cortocircuito, è solo dopo le sue ripetute vittorie presso l’Università di Akron in Ohio, che le sopracciglia hanno iniziato ad innalzarsi. É la storia più vecchia del mondo dello sport: le principali critiche vedono in Lia un “vantaggio” in più rispetto le atlete cisgender, e proprio per questo, sarebbe meglio non far più gareggiare le donne trans.
A dar pan per focaccia alle terf in costume c’è John Lohn, caporedattore di Swimming World Magazine: “Gli attuali requisiti non sono abbastanza rigidi e non generano un’atmosfera autenticamente competitiva” dichiara Lohn “È ovvio che un anno senza testosterone non è sufficiente per una gara equa”.

Nel frattempo ricerche e studi ne confutano e smontano la tesi: Joanna Harper, ricercatrice e runner transgender con studi certificati in fisica e medicina presso l’Università di Loughbororugh in Inghilterra, ha valutato il timer di otto donne trans dopo la transizione e verificato che non c’è nessun reale sbilanciamento rispetto la squadra maschile. 
La stessa Harper – pur portando avanti le sue ricerche – crede che ci sia una fonte di verità quando si dice che il corpo trans abbia dei “vantaggi” in più rispetto quello delle atlete cisgender.
Ma c’è un punto che raramente prendiamo in considerazione: Thomas è solo una delle tante donne trans, e la sua esperienza non è universale a nome di tutte.

Ho visto atlete trans che per più motivi – che fosse un livello differente di testosterone o una reazione imprevedibile del corpo ai farmaci somministrati – non riscuotono lo stesso successo che avevano prima della transizione” spiega Harper. “Non sentiremo mai parlare di queste donne che hanno meno successo dopo la transizione proprio perché non hanno successo e nessuno le conosce”.

Ogni anno ci sono più di 200, 000 donne, e facendo i giusti conti potremmo aspettarci almeno 2000 donne trans in competizione, tutte diverse fra loro, ma nel concreto le stime ne contano meno di 100 all’anno.
Annie Lieberman, direttrice di Athlete Allu e attivista per la community LGBTQIA+ nelle realtà sportive, ha notato come il dibattito dica poco della competizione nel mondo dello sport e molto più dei bias che la nostra società ha interiorizzato senza batter ciglio: dieci stati nel giro di solo quest’anno hanno bannato la presenza di ragazze e donne trans dalle gare sportive, e più di 20 stati stanno considerando una proposta simile.

Lia Thomas durante una gara presso la Press University
Lia Thomas durante una gara presso la Penn University

Le persone potrebbero facilmente pensare che stiamo parlando solo di sport, ma stiamo dicendo parecchio di quanto consideriamo le persone trans e come continuiamo a cancellarle in tutti gli aspetti della nostra società, incluso lo sport” dice Lieberman. Non solo è transfobia (neanche così velatamente) interiorizzata mascherata da dibattito costruttivo, ma distoglie la attenzione da altre questioni che nessuno si scomoda di menzionare, tra cui la parità nella retribuzione, l’assenza di sicurezza sul posto di lavoro, e un supporto psicologico per ogni atleta.

Non so cosa dovrebbe davvero risolvere l’espulsione di una persona come Lia Thomas dalla squadra” spiega Gillian Branstetter, responsabile dell’ufficio stampa per il National Women’s Law Center “Ci sono questioni più grandi da prendere in considerazione per le atlete femminili, e le persone che credono sia questa la soluzione per creare un ambiente sportivo equo sono le stesse che non hanno mai manifestato mezzo interesse nei problemi delle donne nel mondo dello sport”.

A differenza della transfobia, che a quanto pare, trova sempre una corsia dove gareggiare.

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