La Repubblica Islamica dell’Iran è scossa da uno tsunami di proteste da oltre cinque anni, dalle rivolte continue contro un regime dittatoriale sempre più stringente, corroborate dalle proteste dei gruppi più oppressi tra i quali figurano donne e comunità LGBTQIA+.
La frustrazione e l’insoddisfazione verso un regime intransigente e che calpesta quotidianamente diritti e bisogni della popolazione ha raggiunto i massimi storici. Il risultato è un’instabilità continua, con periodiche esplosioni di proteste come quelle a cui stiamo assistendo in queste settimane.
Tutto ciò non ha solo contribuito a far vacillare l’attuale regime, ma ne sta mettendo seriamente in discussione la stessa sopravvivenza. L’establishment iraniano ha ben chiaro il fatto che le minacce alla propria egemonia non vengono da fuori, ma dalla stessa popolazione.
Proteste in Iran: a che punto siamo oggi
L’ennesima protesta, iniziata quest’anno con l’omicidio della giovane Mahsa Amini da parte della buoncostume iraniana, ha questa volta coinvolto più fasce di popolazione – specialmente nella classe media -, ed ha guadagnato l’attenzione internazionale.
“In strada ci sono tutti, dal panettiere al banchiere, alla celebrità a difendere donne e giovani in prima linea, dimostrando un coraggio e una determinazione mai viste prima” ha dichiarato Fathollah-Nejad, giornalista e politologo locale che osserva da vicino il fenomeno delle proteste.
Se inizialmente le manifestazioni si focalizzavano solo sulla questione femminile, man mano tutta la popolazione ha trovato coraggio per muovere contro un regime interessato soltanto al proprio potere. Ne escono intaccate struttura e rete di supporto – il clero islamico, l’esercito – e la rivolta (di questo si tratta) si va diffondendo come un incendio ad ogni angolo del paese, e ad oggi ha coinvolto più di 100 province e città.
Una componente importante è proprio il sostegno internazionale: tutto il mondo ha finalmente potuto osservare senza filtri la rabbia di una popolazione media che – oltre ad affrontare la mancanza di elementi di base come il lavoro, l’istruzione e la stabilità economica – oggi osserva le proprie figlie, mogli, sorelle venir uccise a sangue freddo per la disobbedienza a un regime verso il quale in verità gran parte della popolazione non ha alcun sentimento di fedeltà, né rispetto.
Perché la battaglia delle donne in Iran è anche la battaglia della comunità LGBTQIA+
Al di là del contesto sociopolitico dell’Iran, è la componente emozionale che è riuscita a coinvolgere la comunità internazionale e ad ottenere il sostegno delle persone comuni da tutto il mondo.
La storia della giovane Mahsa, prima discriminata per le sue origini curde, poi arrestata, torturata, violata e infine uccisa in un’odissea durata tre giorni non ha lasciato indifferente le persone da ogni parte del mondo.
Le proteste sono iniziate in Iran, nelle strade di Teheran, per poi coinvolgere tutto il mondo anche grazie al tam tam su internet e alle testimonianze delle persone in prima linea. Il fenomeno delle proteste iraniane non è più risultato così lontano e astratto.
I video su TikTok, le foto su Instagram, gli appelli internazionali degli attivisti ci trasportano nella realtà delle minoranze oppresse in Iran. E, proprie dietro alle donne in prima linea, è possibile scorgere la marea arcobaleno di una comunità LGBTQIA+ che – abbandonando ogni remora per la propria sicurezza – sfila finalmente orgogliosa della propria identità.
Un orgoglio ferito e macchiato da decenni di oppressione, e che ancora oggi viene scalfito dagli arresti, dalle uccisioni e dalle violazioni di un regime che non tollera diversità, né dissenso.
Almeno 92 manifestanti sono stati uccisi durante le proteste, anche se è difficile determinare i numeri reali. La maggior parte di essi non aveva neanche trent’anni di età.
A inizio settembre, la 31enne Zahra Sedighi-Hamedani e la 24enne Elham Chubdar, entrambi membri della comunità LGBTQIA+, sono state rinchiuse nel braccio della morte, colpevoli di essere “diverse” dallo standard imposto dal regime iraniano.
Se l’occidente ha inquadrato le proteste in Iran come una questione prettamente femminile, in realtà è importante analizzare il fenomeno da un punto di vista più esteso, che comprende tutti i gruppi oppressi dall’establishment.
In Iran, l’omosessualità è punibile con la morte – un’esecuzione è avvenuta proprio a inizio anno. I delitti d’onore sono all’ordine del giorno.
Per questo ovvi vediamo in prima linea tantissime bandiere arcobaleno, tantissimi giovani in testa ai cordoni – nonostante il concreto rischio di pagare con la vita la manifestazione del proprio dissenso. Ma perché?
La vittoria delle donne in Iran è anche la vittoria della comunità LGBTQIA+: tutta la popolazione che ha subito discriminazioni e ingiustizie si è unita.
Libertà e dignità sono state negate per troppo tempo a troppe persone, e la popolazione Iraniana ha capito che senza unione non c’è liberazione.
“La comunità queer iraniana è stata una delle più attive e in prima linea durante le recenti proteste, sia attraverso la presenza fisica che quella online” ha dichiarato Raha, attivista e a capo di un collettivo LGBTQIA+. “Siamo qui per dare sostegno alla causa e unirla alla nostra: vogliamo esistere, vogliamo libertà”.
Una libertà pagata con il sangue: prima, quello di una donna transgender unitasi alle prime proteste in sostegno della causa primaria, poi quella di una ragazza lesbica di 16 anni che ha osato mostrare e tagliarsi i capelli in testa a un corteo di protesta.
Raha sottolinea anche che le proteste contro l’hijab riflettono un fenomeno con molte sfaccettature, che coinvolge donne e uomini transgender e persone non binarie, ma anche uomini gay e bisessuali, perché “tutte le persone queer devono sottostare a una serie di discriminazioni intersezionali riguardanti la loro espressione di genere”.
La speranza della comunità LGBTQIA+ in prima linea è di veder cadere il regime, e di sostituirlo con un sistema più liberale – seppur radicato e fedele alla tradizione nazionale. La chiamata all’occidente grida il bisogno di sostegno a livello istituzionale da parte dei governi internazionali.
Sia chiaro, i collettivi ci tengono a sottolineare che l’hijab in s* non è intrinsecamente una forma di oppressione. La parola chiave è “scelta”. Una parola semplice per noi, che però diventa una realtà irraggiungibile per tantissime persone che lottano solo per il diritto di scegliere.
“Siate la nostra voce che oggi viene soffocata con il sangue. Diffondete il nostro messaggio, le nostre storie, e sappiate che esistiamo, e che resistiamo”.
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