A settembre la Commissione europea ha proposto una riforma per adottare una soluzione unica di ricarica per tutti i dispositivi elettronici (dagli smartphone, ai tablet, alle console). Le porte Usb-C sono state scelte come formato standard da applicare a ogni apparecchiatura digitale. Con questa operazione si arriverebbe a risparmiare più di 250milioni di euro l’anno per i consumatori ed evitare quintali di rifiuti da aggiungere alla già spropositata quantità sparsa per il pianeta. Questa idea torna in Commissione dopo due anni di stallo. Il virus, a quanto pare, ha archiviato anche l’enorme problema dei rifiuti elettronici.
La pandemia ha procurato non pochi cortocircuiti alla produzione e allo smaltimento delle componenti elettroniche. Altro che denaro, amore, o chissà quali fantasie utopiche, se oggi dovessimo pensare a cosa non potremmo rinunciare per vivere, sono proprio quei minuscoli chip e le materie prime che li compongono a rappresentare la risposta migliore – sono loro la chiave di volta della contemporaneità. Dal semplice (e chiamalo semplice) smartphone che scrolliamo convulsamente infinite volte al giorno, ai satelliti in orbita attorno al nostro pianeta, fino addirittura a quei robot in avanscoperta su Marte a cui diamo nomi scelti da simpatici sondaggi.
Negli ultimi mesi stiamo assistendo a una crescita esponenziale dei prezzi delle materie prime, in ogni settore. In particolare, a subire l’aumento sono le terre rare e i minerali per le componenti elettroniche dei nostri dispositivi. I motivi sono molteplici, dalla ripresa post-pandemica delle imprese con i magazzini senza scorte e le materie prime che sono diventate un investimento interessante, essendo prezzate in dollari, moneta debole in questo momento. Insomma, la ripresa della produzione è iniziata e la catena, dalla miniera alla protesi digitale, non può aspettare.
Come suo solito la Cina ha raggiunto il traguardo prima degli altri. La Potenza, con quattro mesi di anticipo, ha richiesto e ottenuto buona parte dei rifornimenti di materie prime, quando il loro prezzo era ancora basso. In più questa Nazione possiede e raffina il 90% delle terre rare su scala globale; ciò ha permesso alla Cina di controllare il mercato e decidere i prezzi delle componenti elettroniche.
Con la crisi delle materie prime, la transizione ecologica e digitale è in stallo. Mancano il litio, il cobalto e numerosi materiali per la produzione dei dispositivi elettronici. Anche l’inarrestabile Apple ha dovuto annunciare un calo di produzione, equivalente a 10 milioni in meno dei suoi nuovi iPhone 13 sul mercato entro fine anno. Proprio il cobalto è il minerale chiave per il funzionamento degli smartphone e seguendo la buona vecchia tradizione occidentale, è estratto quasi esclusivamente dalle miniere del Congo, sfruttando la forza lavoro (dicesi schiavitù) delle persone del luogo. Secondo una stima dell’Unicef risalente al 2014, erano 40mila i minorenni, soprattutto in età preadolescenziale, a lavorare nelle miniere di cobalto in Congo. Oggi possiamo immaginare il numero aumentato a dismisura essendo più che triplicata la richiesta del minerale. Sicomines, consorzio delle società statali cinesi, nel 2008 ha stipulato un accordo di 84 miliardi di dollari con il Congo per l’estrazione di rame e cobalto fino al 2033. In cambio sono stati investiti 6 miliardi per le infrastrutture e 3 per il settore minerario.
Il solito scontro tra l’Occidente ricco e digitalizzato con tutte le sue urgenze da bimbetto capriccioso e i paesi poveri, anzi poverissimi, anzi difficilmente classificabili su una scala di povertà. L’eterno ritorno, ma quale ritorno, l’eterno e mai interrotto sfruttamento. Cambiano i mezzi, cambiano le necessità ma il dio denaro chiama. La superiorità in termini di civiltà (civiltà, così dicono, ne sono convinti) impone un vero e proprio assassinio. Intere parti del mondo deturpate, annientate, distrutte pur del sopracitato e convulso zapping social. Certo, ridurre tutto agli smartphone è una pura semplificazione. Ma è anche vero che questa protesi, la contemporanea clava, ce la trasciniamo dietro in ogni momento della giornata. Il centro nevralgico dei sensi di colpa, sempre nelle nostre mani – ma quali sensi di colpa? fammi postare la foto del tramonto di ieri.
Sulle spalle dell’Europa pesa anche lo smaltimento dei rifiuti elettronici (e-waste). Nel 2019, in tutto il mondo sono stati prodotti 53,6 milioni di tonnellate, con un aumento del 21% rispetto i cinque anni precedenti. Solo il 17,5% è stato riciclato. In Occidente mancano gli stabilimenti e spesso le tecnologie per smaltire i rifiuti elettronici. La quasi totalità viene esportata in Africa e Asia, soprattutto in India. In questi paesi sono presenti delle enormi discariche a cielo aperto contenenti tonnellate e tonnellate di pc, smartphone, lavatrici, frigoriferi, tastiere, cavi, caricabatterie e tablet.
Nei paesi interessati da questo disastro ambientale, principalmente Ghana e India, si è attivata una rete di associazioni e volontariato per la raccolta e il riuso dei dispositivi. Spesso dall’Occidente arrivano rifiuti elettronici con piccoli difetti, ma ancora funzionanti. Le organizzazioni no-profit recuperano questi apparecchi per restituirli alla popolazione locale o alle scuole. Inutile dire quanto il lavoro delle associazioni riguardi solo una minima parte dei rifiuti. La quasi totalità finisce nelle mani del mercato nero che recupera e rivende i pezzi. Il tutto si svolge sotto il lascia passare dei governi locali e del tanto green Occidente.
Tra conferenze a cadenza settimanale, G20, bla bla bla, giovani attivisti-immagine, si consuma uno dei più grandi disastri ambientali. La matrice è sempre la stessa. Avanti Africa! Forza Asia! Qui dobbiamo fatturare. Dobbiamo aggiornare il feed, dobbiamo consumare. L’Occidente deve diventare eco, non lamentarti, va’ in miniera!
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