Ho appena finito di vedere la puntata pilota di “The New Normal” che andrà in onda negli Stati Uniti questa sera. Senza fare il Morandini della situazione vi sintetizzo il soggetto così: una coppia di gay (uno come se lo immaginerebbe più o meno Borghezio e l’altro come lo vorremmo trovare noi come fidanzato da presentare a casa) decide di avere un bambino. Tramite un’ agenzia specializzata in fecondazione assistita, incontrano una giovane ragazza che è pronta a fare da “surrogato” per portare in grembo il pargolo. Ci sono poi la nonna di lei: “whatever”-fobica, scorretta, bionda… insomma, la summa di tutte le stronze di Hollywood immaginate da George Cukor; la nera fag-hag e la figlia appena adolescente della donatrice: la solita nerd preadolescente so-tutto-io, divertente in un film ma che se fosse figlia vostra la sbattereste al muro come un polpo.
Premetto che nonostante la prima puntata sia durata appena 25 minuti so già che sarà una serie culto un po’ perché partorito da Ryan Murphy (Nip/Tac, Glee e American Horror Story come garanzie, mica “I 5 del quinto piano”!) un po’ perché ha la grazia che sembrano possedere solo i serial americani nell’affrontare argomenti controversi in maniera profonda, ma con il registro della commedia.
Fare un paragone tra i progressi culturali e politici dell’America rispetto ai nostri è un gioco crudele quanto interrogare Nicki Minaj sulla geografia asiatica e quindi non lo farò. C’è però da dire che nonostante la distanza abissale, anche da quelle parti non tutto scorre liscio come potremmo credere con la sola differenza che, quantomeno, sui matrimoni gay e ancora di più sulla omogenitorialità (vi prego indiciamo un concorso per trovare un termine meno ostico che non suoni come uno scatolone di cristalli che cade accidentalmente per le scale) non solo c’è un dibattito politico serio ma le forze mettono in campo proposte concrete e non misere blandizie senza alcun vigore.
In quest’ottica di impegno politico su più fronti a “The New Normal” spetta il compito quasi propagandistico di spiegare al pubblico televisivo americano in maniera semplice, quasi da sussidiario delle elementari, che la famiglia è là dove c’è il desiderio di crearla, a prescindere dal sesso, e che la volontà di avere dei figli trova sempre il modo di adattarsi alle contingenze superando gli ostacoli imposti o dalla natura o dalla società. Per spiegare questo, “The New Normal”, intraprende la strada più impervia. E mi spiego meglio. I due protagonisti non decidono di avere un figlio chiedendo l’ovulo a un’amica del cuore, non immaginano una famiglia allargata, non ipotizzano l’adozione ma scelgono il “surrogato”, forse la soluzione più criticata dai conservatori tanto di destra quanto di sinistra per il fatto che colei la quale partorirà il bambino non dovrà rivendicare diritti di genitorialità e questa è una cosa che, al di là della scelta consapevole di tutti i soggetti coinvolti, fa storcere qualche naso. E per rincarare la dose: il desiderio di paternità di uno dei due non nasce guardando al rallenty i bambini dei loro amici correre in un prato mentre in sottofondo suona una ballata di Enya.
No, Bryan ha la folgorazione genitoriale in una boutique quando la sua attenzione viene catturata da un abito per neonati talmente “cool” da desiderare di avere un figlio che lo indossi (ma è evidente già dal primo episodio come la sua maturazione emotiva progredirà in una paternità responsabile e consapevole).
Ecco quindi dov’è la sfida politica di “The New Normal”: mostrare lo scenario più ostico da accettare e avvincere il pubblico a tal punto da persuadere, come stabilisce il titolo stesso, che la normalità è una condizione sempre più relativa e se riuscirà nell’intento, se non di convincere, quanto meno di far considerare l’ipotesi che un “utero in affitto” è solo uno dei tanti modi con cui tutti noi cerchiamo di realizzare la nostra felicità allora “The New Normal” avrà dimostrato ancora una volta l’assunto che l’evoluzione culturale di un paese avviene soprattutto attraverso l’impegno degli intellettuali e degli artisti, anche quando questi scrivono commedie.
Il trailer della serie
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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