«Sto producendo questo documento fotografico per incoraggiare gli individui della mia comunità ad avere il coraggio di occupare gli spazi. Per insegnare alle persone la nostra storia, per ripensare a cosa è la storia, per rivendicarla per noi stessi – per incoraggiare le persone a usare strumenti artistici come le macchine fotografiche come armi per contrattaccare»,
questo è il messaggio che lancia la fotografa e attivista sudafricana Zanele Muholi. Non solo l’identità di un popolo, quello africano, ma anche di una comunità, quella LGBTQ+, che in quei territori non vede riconosciuti i suoi diritti, ancora meno che in tante altre parti del mondo.
Nata a Umlazi, nel Durban, e trasferitasi poi a Johannesburg, Zanele Muholi inizia la sua carriera nel 2006 con il progetto Faces and Phases, in cui si trovavano ritratti di donne nere lesbiche e transessuali. La sua intenzione era quella di far conoscere l’esistenza di una comunità queer anche nel Sud Africa, troppo spesso ignorata e quasi per nulla rappresentata. La storia dell’omosessualità nel Paese è macchiata da discriminazioni, minacce e tentativi di eliminazione che tristemente si protraggono ancora oggi.
Ecco allora che due anni fa dà alla luce la serie Somnyama Ngoyama (Hail the Dark Lioness), selezionata anche dalla Biennale Arte di Venezia, in cui, sperimentando con svariati oggetti e immagini, ha rappresentato diversi archetipi ed eventi del popolo e della storia politica del Sud Africa, diventano parte integrante dei costumi e dei ritratti per analizzare i temi della resistenza sociale e dell’identità.
L’identità. È questa che Zanele Muholi cerca. L’identità delle donne di colore, e la loro fuorviante rappresentazione che per decenni ha pervaso i media, ma anche l’identità delle donne lesbiche e degli uomini gay, delle persone transessuali e non binarie, pansessuali e gender fluid. Mischiando messaggi politici, stereotipi, questioni di genere ed eventi storici, il suo obiettivo è restituire un quadro della situazione LGBTQ+ nella sua terra d’origine.
«La gente non può cambiare il sistema se non si considera parte di esso. Per comprendere questo ragionamento, bisogna ricordare che stiamo ancora facendo i conti con le conseguenze dell’Apartheid, il cui unico obiettivo era privare i neri dei loro diritti».
«Ho usato la fotografia per sfidare l’approccio ai racconti LGBT, spesso fraintesi da chi si trova al potere. Volevo sfidare gli storici e gli storici dell’arte, chi raccoglie documentazione su di noi dal XVIII secolo ma nega la nostra visibilità e, di conseguenza, la nostra rappresentazione».
Conoscere e capire sono le uniche strade che abbiamo verso un futuro veramente inclusivo, e questo passa anche attraverso l’attenzione a quelle comunità e minoranze che troppo spesso, nel corso della storia, sono state tenute nell’ombra e inascoltate. «Ho contribuito a scrivere e riscrivere la storia, l’ho fatto sapendo che questo lavoro va oltre la comunità LGBT».
Riguarda anche il futuro, le prossime generazioni e tutti coloro che pensano di poter esistere su questa Terra senza tenere conto dell’Altro.
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