Gay e in carcere in Egitto: il caso prima di Regeni

È rimasto 27 giorni in cella, salvandosi grazie a un cellulare nascosto

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2 min. di lettura

giulio_regeniLa vicenda di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge barbaramente massacrato e trovato in un fosso lungo una strada egiziana il 3 febbraio 2016, da mesi infervora il dibattito politico e non in Italia. Si discute sulle responsabilità dell’Egitto, sull’omertà dei suoi agenti, sui precedenti crimini commessi dal governo di al-Sisi e su altri casi di tortura, come quello del brillante ragazzo, che potrebbero far scoppiare una bomba mediatica e un caso giudiziario sul governo.

 

In questo senso è emersa in questi giorni, dalle pagine del Corriere della Sera, una storia sconcertante: sette mesi prima della morte di Regeni un altro ragazzo italiano, che preferisce rimanere anonimo, viene arrestato e incarcerato senza alcun apparente motivo valido per ben 27 giorni. L’uomo, un trentenne che da 4 anni lavorava nello Stato, viene portato in furgone al Mogamma, il palazzo governativo di Piazza Tahrir: viene interrogato bruscamente e perquisito, gli vengono intentate minacce per fargli firmare moduli, scritti in egiziano, che egli rifiuta.

 

Il motivo è tutt’ora sconosciuto: Ancora non so perché mi hanno arrestato: forse perché ero straniero, probabilmente per il fatto di essere gay, solo per questi motivi ero bersaglio del governo egiziano”, racconta. Ancora una volta l’omosessualità potrebbe aver aizzato la polizia a compiere un gesto brutale e insensato, così come nei mesi scorsi è accaduto in Tunisia (qui per seguire tutte le vicende dal nostro sito). “Nella mia vicenda si sono addirittura inventati che organizzavo incontri sessuali a pagamento pur di incastrarmi”: la presunta omosessualità potrebbe aver implicato il pregiudizio della promiscuità, che spesso si accompagna, in una mentalità omofoba, all’essere gay.

 

Dopo l’interrogatorio il ragazzo viene chiuso in una cella di 5 metri per 5 insieme ad altre 40 persone ma fortunatamente, grazie al loro aiuto, riesce poi a contattare l’ambasciata italiana, diritto che fino ad allora gli era stato negato. “Mi hanno spiegato le regole del carcere: sono gli anziani a decidere chi può dormire, mangiare o andare in bagno, un buco in un angolo della cella”. Grazie al telefono nascosto di uno di loro, l’uomo è riuscito a contattare il console italiano Luca Fava e l’ambasciatore Maurizio Massari, che prontamente lo hanno posto sotto la protezione della Guardia nazionale impedendo di fatto che venisse toccato dalle autorità egiziane.

 

“In più occasioni mi hanno fatto assistere alle torture riservate ai detenuti: frustate, calci, pugni, coltelli… un trattamento molto simile a quello che, da quanto leggo, ha ricevuto Giulio Regeni. Le attività di depistaggio del governo in questo senso sono all’ordine del giorno: ci sono tanti altri prigionieri stranieri che vengono puntualmente incarcerati solo perché diversi, che sia per il colore della pelle o per l’orientamento sessuale: “il mio non è stato un caso isolato: ne avvengono di decine ogni giorno. Io sono fortunato perché sono tornato a casa”.

 

Speriamo che questa storia permetta alle diplomazie italiane di andare oltre gli interessi politici ed economici in ballo con l’Egitto e di condannare queste atroci nefandezze.

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Giovanni Di Colere 11.4.16 - 17:55

Io non ci vado da anni ormai è tutta la fascia dal Marocco all pakistani i paesi musulmani ci considerano come i.criminali

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