Domenica 17 Dicembre è stata La Giornata Internazionale contro la violenza sullə sex worker.
Istituita per la prima volta nel 2001, quando in India si riunirono più di 25.000 sex worker per il festival dell’associazione Durbar Mahila Samanwaya Committee a Calcutta, la manifestazione ha – all’epoca come oggi – l’obiettivo di decriminalizzare il lavoro sessuale permettendo così il riconoscimento dei diritti di ogni persona che ne fa parte.
Per sex work o lavoro sessuale intendiamo “lo scambio di servizi, prestazioni o prodotti di carattere sessuale in cambio di un compenso materiale” (Wikipedia) che può avvenire sia tramite un contatto fisico diretto o una stimolazione indiretta (quindi anche virtualmente o in mille altre forme che non coinvolgono necessariamente un contatto fisico).
Ma in parecchi paesi del mondo fare lavoro sessuale è ancora illegale e criminalizzato. Questo rende lə sex worker soggetti molto più vulnerabili alla violenza, sia istituzionale che fisica da parte di un sistema che non tutelandolə può permettersi di abusare del proprio potere.
Violenza che ricade non solo sulle donne, ma su tutte quelle soggettività già ampiamente marginalizzate: dalle persone migranti –che a cause delle leggi migratorie non hanno accesso ad un lavoro regolare e ricorrono alla prostituzione non per libera scelta, ma come ‘strategia di sopravvivenza’ – ma anche le persone BIPOC, disabili, e LGBTQIA+ (ndr. stando alla ricerca del 2018 tenuta da ILGA EUROPE –gruppo di difesa che promuove gli interessi delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali, a livello europeo – almeno l’88% delle vittime di transfobia erano sex worker).
“Se tu (sex worker) sei vittima di un crimine, non puoi denunciarlo perché sei già dipinta tu come criminale” ci spiega Sara Brown – performer, regista, adult Industry specialisti e sex worker (qui potete leggere la nostra intervista) “Quello che tuttə noi vogliamo – non importa dove e come – è abrogare ogni tipo di legge che criminalizzi sia farlo, che consumarlo, che organizzarlo”.
Come ci spiegava un anno fa anche Elettra Arazatah di Associazione SWIPE (qui l’intervista) c’è una differenza tra decriminalizzare e legalizzare.
Ad oggi in Belgio – primo paese europeo ad aver decriminalizzato il lavoro sessuale – lə sex worker hanno possibilità di organizzarsi in cooperative o lavorare come indipendenti, con le stesse tutele di ogni altra attività lavorativa. Al contrario, il ‘modello nordico’ – adottato da paesi come Germania e Olanda – legalizza l’esercizio del sex work sotto il controllo predominante dello stato, costruendo dibattiti e disegni di legge che non coinvolgono direttamente lə sex worker o/e non rispecchiano le reali necessità di chi fa questo lavoro.
Lo stesso vale per l’Italia: come ci spiega sempre Brown, nel nostro paese vendere sesso a pagamento è tecnicamente legale, mentre sono reato lo sfruttamento della prostituzione (“chi porta sulla strada” la prostituta) e l’induzione alla prostituzione (chi partecipa dei suoi utili). Di fatto, però, è un lavoro non tutelato che soffermarsi un pesante carico di stigma sociale. Questo stigma può portare facilmente sia all’abuso di potere dalle forze dell’ordine (sono tanti i casi nel mondo di prostitute in strada che sono state minacciate, violentate, cui è stato estorto denaro alla polizia, o addirittura lasciate morire senza giustizia dalla polizia) che dei clienti (che possono sentirsi in diritto di opporre resistenza a lasciare il proprio nome allə sex worker che hanno bisogno di screening completi dei clienti per garantire loro sicurezza).
‘Sex work is work’ è la frase più familiare e famosa quando si rivendicano i diritti dellə sex worker, fuori e dentro i social. Ma cosa significa davvero questo slogan? “Significa semplicemente che ad ogni lavoro dovrebbero corrispondere diritti lavorativi, paghe decenti, e sicurezza sul lavoro. Tutto quello che ogni lavoratore richiede, in ogni ambito” spiega Brown. Non si tratta di ‘glamourizzare’ o necessariamente di ’empowering’, ma un discorso molto pratico di diritti del lavoro, che rivendica il diritto di esercitarlo in piena sicurezza e rispetto, e smettere di farlo senza mettersi in pericolo o subire il peso dello stigma a vita.
Come dice sempre Sara Brown: “La decriminalizzazione porta a sua volta anche ad una destigmatizzazione che ci permette di fare questo lavoro senza essere esposte a nessun tipo di violenza psicologica o istituzionale, e avere alla libertà di lasciarlo come qualunque altro lavoro”.
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